Il mio articolo oggi sul Sole 24 Ore.
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Nella nota congiunturale dell’Ufficio Parlamentare di Bilancio spicca una tabella che riassume le condizioni attuali al ribasso della congiuntura mondiale. A fronte di una crescita 2019 del 3,5%, sempre trainata dai paesi emergenti (+ 4,5%), sono i paesi avanzati a segnare come da decenni a questa parte il passo, con una crescita minore al 2%. Eppure all’interno del mondo sviluppato la condizione del convalescente è variegata: si passa dal 2,5% statunitense al solito 1% in meno dell’area euro, al solito 1% in meno addizionale dell’Italia.
Non si pensasse tuttavia che questa particolare congiuntura europea al rischio di ribasso, la terza nel giro di 10 anni, non abbia una sua caratura speciale e diversa. Non è sfuggita agli occhi più attenti il curioso parallelismo continentale tra Francia e Italia, in cui la prima, secondo la Corte dei Conti transalpina, fronteggia significativi rischi di finanza pubblica con un deficit vicino al 3%, un debito alto e poco spazio di ulteriore manovra a seguito degli 11 miliardi stanziati per venire incontro alle richieste di pensionati e lavoratori a basso reddito. Come non dedurne che in Europa è lo stato dell’economia con le sue prorompenti esigenze di maggiore equità a dettare la linea delle politiche di bilancio? In fondo, lo stesso avviene negli Stati Uniti, con la differenza che Trump si permette deficit pubblici ben più alti di quelli del Vecchio Continente e per il tramite della politica fiscale espansiva sorregge la sua economia ed il suo consenso elettorale, equilibrismo ben più instabile dall’altra sponda dell’Atlantico.
Abbandonato quel globalismo che non ha saputo coniugare alla crescita l’equità ed è risultato perdente e divisivo, il pendolo del mondo occidentale si sposta oggi verso forme di sovranismo che paiono tuttavia spesso specializzarsi nel dare più equità senza maggiore crescita, esito altrettanto politicamente rischioso, perché redistribuisce la stessa torta dando di più a qualcuno e meno ad altri, senza invece permettere alla torta di crescere dando di più a tutti. Eppure che sia proprio un maggiore deficit pubblico a doversi far carico in questa fase di aumentare la torta distribuendola meglio non è solo evidente dal caso statunitense. Nel suo recente discorso al Forex anche il Governatore Visco ha richiamato l’esigenza di sospingere la leva degli investimenti pubblici, capace a parere di chi scrive di effetti moltiplicativi superiori e effetti distributivi analoghi a quelli di reddito di cittadinanza e quota 100. Ma, come il suo collega Draghi a Francoforte, lo fa all’interno di un auspicato percorso di rientro verso il bilancio in pareggio, che può conciliarsi solo con aumenti di IVA di 20 miliardi annui o tagli lineari di spesa equivalenti: se con la mano degli investimenti diamo e con l’altra togliamo è impossibile pronosticare un’uscita dal circolo vizioso della stagnazione in cui ci siamo impantanati da quasi un ventennio.
La soluzione è a portata di mano e non può che essere discussa, democraticamente, innanzitutto durante la campagna elettorale per il Parlamento europeo, chiedendo alle forze politiche di pronunciarsi al riguardo di quale sia la nuova costituzione fiscale che ogni partito, nel rispetto dell’aderenza alla valuta comune dell’euro come simbolo di un progetto federativo condiviso, propone di sostenere per l’Europa, finito il periodo di prova (con esito disastroso) di 5 anni del Fiscal Compact. Vi sarà certamente una coalizione paneuropea che sosterrà l’esigenza di utilizzare, come fa ogni grande area economica, Stati Uniti e Cina in primis, una maggiore flessibilità di bilancio per i momenti di difficoltà economica. Se questo insieme di partiti risulterà vincitore o perlomeno influente nell’aula di Strasburgo, potremo forse finalmente entrare in un’epoca dedicata alla crescita economica di un Continente che deve porsi come obiettivo ambizioso quello di tornare a essere la locomotiva del mondo.
E l’Italia? Che il Fondo Monetario Internazionale ricordi a tutti, forse esagerando, che una crisi globale può partire dal nostro Paese è comunque un segnale che ci spetta assumerci delle responsabilità, specie se in cambio di queste ci verrà finalmente permessa quella politica fiscale espansiva che combini investimenti pubblici e deficit (una “golden rule”) così da poter ripartire in una fase di crescita equa ed un clima politicamente sostenibile. E quale è questo segnale di responsabilità? Semplice, è quello di finalmente realizzare la madre di tutte le riforme: una spending review che dimostri finalmente a tutti che sappiamo spendere bene (non meno!) le maggiori risorse di cui un’Europa intelligente e coesa ci permetterà di disporre.