Il DEF appena uscito, nelle sue riforme menziona poche volte le micro e piccole e medie imprese. (http://www.mef.gov.it/inevidenza/DEF_2016/documenti/Sezione3/W_-_DEF-2016-Sez_III-PNR_2016.pdf )
Per lo più si rivolge a quelle più innovative e appena nate (start-up) e cerca di facilitare la quotazione di quelle già esistenti: di fatto rivolge la sua attenzione a una minuscola minoranza di questo patrimonio italiano che il DEF erroneamente continua a chiamare PMI (escludendo le micro imprese anche dalla nomenclatura della politica industriale italiana). Un’indifferenza che mette tristezza e che prosegue da anni, anche con il Governo Renzi, che da ben due anni si ostina, come i precedenti governi Monti e Letta, a non presentare alle Camere come è suo obbligo il disegno di legge per le piccole imprese.
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Tanto può essere fatto per le piccole là dove subiscono maggiormente i danni del contesto normativo: in particolare nella regolazione pubblica e nella domanda pubblica, veri e propri teatri di un imbarazzante favoritismo verso le grandi imprese che, come le recenti cronache giudiziarie hanno chiaramente evidenziato, comincia dall’atteggiamento supino verso le grandi che da sempre ha il Ministero dello Sviluppo Economico. Ministero che andrebbe trasformato esclusivamente in Ministero per le MPMI: tanto le grandi, come si è visto, il loro giardino se lo sanno facilmente curare da sole.
Nella regolazione, ispirandoci alla legislazione americana del Regulatory Flexibility Act, dovremmo impedire qualsiasi regolamento, determina, circolare o norma (locale o centrale) che abbia un impatto più oneroso per le piccole che per le grandi, e ideando una regolazione differenziata in tal caso.
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Negli appalti pubblici tre potrebbero essere le direttrici chiavi che dimostrerebbero un vero interesse del Governo alle sorti delle micro e piccole imprese. Prendiamo spunto in larga parte dall’esperienza di successo della Corea del Sud, che ha una struttura di piccole imprese dominanti come in Italia, seppure ruotanti attorno ad un sistema industriale di grandi imprese diverso da quello italiano. Per capire di più del sistema di appalti in Corea del Sud, autentica best practice mondiale, una squadra di economisti dell’OCSE si è recentemente recata a Seoul.
Il rapporto resoconto di tale missione è su http://www.keepeek.com/Digital-Asset-Management/oecd/governance/the-korean-public-procurement-service_9789264249431-en#page1
E’ anche da quanto leggiamo su quel rapporto (che consigliamo vivamente ai consiglieri di Renzi appassionati di riforme irrilevanti per il Paese e ai burocrati del Ministero dell’Industria) che traiamo le tre possibili misure da adottare.
Primo. Nel sistema di appalti della Corea del Sud, è previsto un Fondo di rotazione a disposizione di micro e piccole imprese per eliminare qualsiasi ritardato pagamento, fattore questo essenziale per permettere partecipazione alle gare pubbliche e aumentare le possibilità di vittoria alle stesse. Il 70% del pagamento avviene in anticipo, con pagamento entro 4 ore di fronte a presentazione della fattura. Prestiti da parte dello Stato (a seguito di accordo con 15 banche commerciali) pari all’80% del valore del contratto sono a disposizione delle piccole senza garanzie, né fisiche né finanziarie. Cosa costerebbe al Tesoro italiano strutturare un tale Fondo e porre fine alla vergogna dei ritardati pagamenti verso le piccole imprese?
Secondo. Nel sistema coreano, per 207 prodotti specifici la Pubblica Amministrazione acquista solo dalle piccole imprese, a trattativa addirittura diretta sotto i 42.400 dollari (la stessa cosa avviene nei lavori pubblici sotto soglie di circa 100 milioni di dollari). Alle piccole imprese certificate dal Governo come di eccellenza e/o innovative vengono dati più punti in gara che alle imprese grandi, così da non essere completamente sfavorite quando competono in gara. A livello locale esistono obblighi di aggiudicare ad imprese locali. Dal 2009 al 2014, grazie a queste legislazioni, la quota di euro aggiudicati alle piccole imprese è salita dal 53,6% al 71,9%. Cosa aspetta il Tesoro a restringere il sottosoglia esclusivamente alle micro, piccole e medie imprese dell’Unione europea?
Terzo. Negli Stati Uniti, per aggregare i fabbisogni pubblici in un’unica gara c’è bisogno di dimostrare che i risparmi superino un certo ammontare, altrimenti l’aggregazione è sconsigliata perché impedisce alle piccole imprese di partecipare e di vincere. In Italia abbiamo deciso di fare il contrario, chiedendo che su certe merceologie si possa procedere con gare grandi anche se costano di più. Il passaggio a poche grandi stazioni appaltanti è stato richiesto dal Governo italiano ed avrà un impatto significativamente negativo sulle piccole imprese a causa della crescita della dimensione del valore delle gare pubbliche. A meno che… A meno che non si faccia come negli Stati Uniti e si inventi la funzione pubblica dell’Ambasciatore della Piccola Impresa. Costui dovrà rappresentare gli interessi delle piccole impresa dovunque le gare superino una certa dimensione ed esprimere richieste formali di cambiamenti dei capitolati di gara per facilitare la partecipazione e la possibilità di vincita delle PMI. In particolare, la presenza di un Ambasciatore della Piccola, nominato in accordo con le organizzazioni di categoria delle piccole italiane, dovrebbe essere resa obbligatoria per quanto riguarda il Tavolo dei 35 aggregatori, le 35 stazioni appaltanti regionali e delle grandi città metropolitane che insieme alla Consip coordinano le scelte a livello nazionali su quanto e cosa mettere a gara, e come.
Se il Governo Renzi riuscirà a muoversi su queste tre direttrici avrà dimostrato un qualche interesse alle sorti del nostro patrimonio della Piccola impresa. Altrimenti, quanto vediamo ogni giorno avvenire in termine di distruzione di base imprenditoriale non potrà che essergli addebitata esattamente come abbiamo fatto con i due governi precedenti, assolutamente obnubilati dagli interessi delle grandi imprese e dei freddi dettami europei.