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Alle grandi imprese non serve un Ministero, alle piccole sì

tratto da un articolo con Stefano Manzocchi oggi sul Sole 24 Ore.

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Il Consiglio dei Ministri ha approvato, su proposta del Presidente del Consiglio, Enrico Letta, e del Ministro dello Sviluppo Economico, Flavio Zanonato, l’esame preliminare del decreto presidenziale di un regolamento riguardante una riorganizzazione del Ministero dello Sviluppo Economico … (che) si fonda sulla eliminazione della articolazione per Dipartimenti (attualmente il Ministero si articola in 4 dipartimenti: Impresa; Comunicazioni; Energia e Coesione) e sulla istituzione, quale figura di coordinamento organizzativo e funzionale, del Segretario Generale… (che) coordinerà 17 direzioni generali operative.” Così recita il comunicato sul web legato al 19mo consiglio dei Ministri del Governo Letta, di qualche giorno fa.

Si è trattato dell’ennesima occasione persa per creare, come di fatto è il caso dal 1953 per gli Stati Uniti, un Ministero o un’Agenzia indipendente per la Piccole e Medie Imprese che risponda direttamente al Capo del Governo? Tutto purtroppo lascia intendere che sia cosi.

Le grandi imprese non hanno bisogno di un Ministero che si occupi di loro: trattano da pari a pari con le banche, anzi sovente dettano le loro condizioni agli istituti di credito  e intervengono nella governance. Hanno semmai bisogno di un fisco meno vorace e di pochi interlocutori ben definiti e chiare regole per definire i loro investimenti. Sono le Piccole, invece, che hanno bisogno di una agenzia pubblica che le protegga dagli abusi di posizioni dominanti sul mercato e dagli abusi della PA, e le coordini per cogliere meglio le opportunità di affari ove necessario. E’ abbastanza scontato che gli interessi della grande impresa prevarranno sempre su quelli delle PMI fino a quando queste ultime non avranno un loro difensore specifico solo ad esse dedicato.

Eppure questa è anche l’occasione giusta, in attesa di vedere chiarite le ripartizioni delle competenze e l’importanza del peso specifico dei singoli uffici e direzioni all’interno del nuovo organigramma del MISE, per chiedersi cosa se ne vuole fare, e cosa va orientato nella loro direzione, delle piccole e medie imprese italiane.

Non è poi così difficile comprendere cosa serva, quali siano le urgenze di questa componente cosi rilevante e dinamica del nostro tessuto produttivo. Basta leggersi ogni 6 mesi il prezioso contributo che proviene dalla pubblicazione da parte della BCE del Rapporto sulle condizioni dell’accesso al credito per le PMI. Ogni volta, tra le prime tabella, si trova la domanda di quale sia il problema più pressante per le piccole imprese all’interno dell’area dell’euro. Ed è da quando esiste questa pubblicazione, dallo scatenarsi della prima recessione del 2008-2009, che la risposta dominante è: la mancanza di clienti. Lo è anche oggi che il resto del mondo ha ripreso a tirare, a conferma che la vera soluzione ai problemi delle nostre piccole imprese non può che passare, obbligatoriamente, anche per una riqualificazione della spesa pubblica italiana, che abolisca gli sprechi (stimati attorno al 20 percento del bilancio dello Stato dalle analisi di alti funzionari del Senato) e che rilanci capitoli “intelligenti” di spesa. Ne abbiamo scritto sul Sole del 2 agosto: un piano straordinario di edilizia scolastica e carceraria, che riporti l’Italia ad un livello degno del suo rango e che attivi la produzione di Pmi dell’edilizia in grado di sostenere occupazione e salari. E si può continuare oltre: ogni esitazione, ogni pausa, ogni ripensamento su questo tema continuerà a uccidere pezzi strategici del nostro tessuto imprenditoriale, rendendo meno significativo l’aiuto proveniente dalla domanda extra europea in potenziale ripresa.

Evidentemente quello della domanda interna non è l’unico problema di cui soffrono le nostre PMI. E’ crescente per l’Italia, rivela sempre lo studio BCE, un tema chiave che continua ad essere irrisolto: quello degli oneri della regolazione. E sì che alla riduzione di questi avevamo pensato con una legge dal potenziale enorme, lo Statuto delle Imprese, che avrebbe dovuto misurare l’impatto economico della regolazione prima di attuarla, un po’ come negli Stati Uniti dal 1980, dove con il Regulatory Flexibility Act si è voluto restaurare un terreno equo di sfida tra piccole e grandi, bloccando qualsiasi regolazione che impatta in maniera superiore per le piccole che per le grandi e negoziando con le associazioni delle PMI il loro adeguamento. Peccato che nessuno se ne sia accorto: sia il Governo Monti che quello Letta hanno lasciato passare inosservata, per due anni consecutivi, la scadenza del 30 giugno entro la quale andava, secondo lo Statuto delle Imprese, presentato un disegno di legge annuale per le piccole.

Infine l’altro grave vincolo per le Pmi  rilevato dalla BCE: l’accesso al credito. Qui il dibattito italiano sembra un po’ in stallo, tra soluzioni ad hoc a favore delle Pmi che però sembrano più prefigurare un sistema di finanziamento per poche, elette, aziende oppure per un futuro che speriamo  prossimo (mini bond, ecc.), e misure urgenti per sostenere le banche. Occorre invece favorire, da subito, ogni misura che aumenti la liquidità e per quella via gli investimenti delle Pmi. Bene quindi potenziare ed estendere la missione del Fondo di garanzia, che del nuovo MISE votato alle Pmi dovrebbe diventare strumento potente. Ma, oltre a questo, il nuovo MSPMI (Ministero per lo sviluppo della Pmi) dovrebbe battersi in Consiglio dei Ministri per ottenere il totale rimborso dei crediti pregressi vantati presso la PA entro il 2013. Così farebbe negli Usa la Small Business Administration, così servirebbe fare da noi, il Paese industriale con la più alta densità di Pmi manifatturiere.

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