OK. Si parla di aumentare le tasse universitarie.
Facciamo un esempio di una università.
Allora, immaginate che per metter su questa università si debba spendere 50, magari per i professori. Per esempio, devo pagare 2 insegnanti (25 euro l’uno), ognuno dei quali insegna rispettivamente ad un solo studente: Paolo e Giovanna (lezioni private? wow). Questo 50 è anche quanto vale l’università in totale. Diciamo cioè che il valore per Paolo e Giovanna di seguire questi 2 corsi è di 25 euro, per ciascuno di loro.
Ultima ipotesi: i 50 euro per sostenere la spesa dell’università li otteniamo dalla fiscalità generale e non da rette universitarie agli studenti. Così la finanziano anche quelli che non vanno all’università. Magari, come abbiamo visto nel post di ieri, i meno abbienti, e cioè né Paolo né Giovanna, ma Francesco, il più povero.
Ecco lo schema:
Come vedete, Giovanna effettivamente paga 15 di tasse (rosso) ma riceve 25 di valore (verde): su un reddito di 50 il suo guadagno di 10 equivale ad una tassa negativa (un sussidio) del 20% del suo reddito.
Francesco invece, che lavora, paga con le sue tasse lo studio di Paolo e Giovanna.
I dati del post di ieri grosso modo confermano che l’università è una tassa sui poveri a favore dei ricchi.
Ora pensate di muovervi verso un mondo dove si tassa chi segue l’università, modello anglosassone.
Ecco lo schema:
Nell’esempio facciamo pagare lo stesso ammontare ad ogni studente frequentante. Sempre 50 otteniamo dalle tasse (stavolta in forma di rette universitarie) per finanziare gli insegnanti. Ma notate che alla fine è come se nessuno le pagasse: né Francesco, ma nemmeno Giovanna e Paolo che ricevono in valore quanto pagano di tasse.
Lo so, è molto irrealistico come schema. Ma illustra bene due cose: la regressività dell’attuale schema basato in gran parte sulla tassazione generale, e il fatto che lo schema di tassazione non risolve il problema chiave descritto ieri nel blog, e cioè che Francesco non va all’università, in nessuno dei due casi.
Mi sembra un vero problema, visti i numeri (vedi di nuovo post di ieri), decisamente più rilevante rispetto a quello di tassare i fuori corso (appena inserito nei provvedimenti governativi), questione risolvibile senza tanto fracasso obbligando l’università a laureare in 3 anni, come se si andasse a scuola.
Anche perché portare – come ci chiede Europa 2020 – i nostri laureati dal 18% al 40% (ultimi o quasi nell’Unione europea) nel giro di pochi anni certamente richiede di agire sulla leva dei meno abbienti che non vogliono iscriversi. Ora, non è che dobbiamo obbligarli perché lo dice l’Europa (anche se l’Europa lo dice perché una società che va basata su servizi ed innovazione difficilmente si può accontentare di avere giovani solo diplomati): nell’esempio fatto sopra Francesco non va all’università perché non ne vede i benefici. O perché non ne percepisce i vantaggi o perché i costi (rinuncia al salario) potrebbero essere troppo alti.
E non ne vede i vantaggi in parte perché gli extra-salari derivanti dall’andare all’università in Italia non sono così alti (meno del 10%, vedi sotto), sia perché i rendimenti non monetari ma sociali (imparare ad interagire con altri, fumare di meno, ecc.) non sono percepiti come significativi, e infine perché i genitori (vedi post di ieri) che non hanno studiato all’università non vedendone i vantaggi non spingono i loro giovani verso una scelta ritenuta anomala.
Ognuna di queste problematiche ha una sua soluzione:
- i salari bassi post università sono anche figli di una economia che stenta a crescere, che innova poco anche perché non la si lascia innovare (oneri burocratici in primis);
- mentre il resto necessita un approccio più proattivo che potremmo adottare per far percepire ai più bravi e meno abbienti i vantaggi di una istruzione avanzata o tecnica. Come dice Paola Giuliano, a parità di talento (voto alle medie) dei ragazzi, un padre con uno scarso livello d’istruzione riduce di oltre il 50% la probabilità che il figlio frequenti il liceo, anche se questo pregiudica le chance di successo e di completamento degli studi universitari, legate al tipo di istruzione superiore conseguita: “una volta che ragazzi di talento di famiglie non abbienti scelgono la scuola superiore “giusta”, il liceo, le loro possibilità di terminare l’università sono poco diverse da quelle di ragazzi provenienti da famiglie abbienti”. Per risolvere questo “circolo vizioso dell’istruzione” è necessario dunque agire prima: per esempio, una capillare campagna di informazione, prima del termine della scuola dell’obbligo, sul valore dell’istruzione.
Aumentare le tasse universitarie dunque aumenta il costo per chi frequenta, non un dramma per i più ricchi, ma rende ancora più difficile il difficilissimo tentativo di attrarre i talenti meno abbienti.
Allora quando cominciamo a lavorare per finalmente rimuovere le barriere alla mobilità sociale dei giovani? Quando? E’ alla nostra portata. Altrimenti mettiamo fuori corso la politica che non ci prova nemmeno.
31/07/2012 @ 09:49
L’unico effetto certo dell’aumento delle tasse universitarie per i fuori corso è un ulteriore diminuzione del numero di laureati, non un incremento, per l’ovvia diminuzione del numero degli iscritti. E’ un dato così banale e lapalissiano che lo rileverebbe anche un non esperto della materia per così dire… e l’inutilità dell’incremento di questa tassa non mi lascia tranquillo su altri interventi che questo governo sta impostando su altri settori o ambiti… se questo è l’andazzo stiamo freschi…