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Lo spread: nemico o alleato?

Nel 2002 Alvaro Uribe fu eletto Presidente della Colombia avendo come specifica piattaforma elettorale quella di combattere il movimento ribelle di sinistra delle FARC, Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombia, e dell’ELN, Ejército de Liberaciόn Nacional.”

Uribe, il cui padre era stato assassinato dalle FARC, era percepito come favorito nella corsa elettorale a causa del suo odio per questi gruppi, specie rispetto ai politici tradizionali che avevano una reputazione di cercare il negoziato e la trattativa con questi gruppi.

Insomma Uribe si trovò in mano un incarico delicato alla cui risoluzione la collettività teneva particolarmente, per il quale era probabilmente più versato di altri. Ma con la paradossale conseguenza che sconfiggere “il nemico” avrebbe comportato la fine della propria desiderabilità come Presidente: sconfitti i terroristi, l’elettorato colombiano si sarebbe rivolto verso candidati più tradizionali o capaci di risolvere altri tipi di problemi.

Se voi foste stati Uribe, cosa avreste fatto? Quanto avreste realmente combattuto i terroristi? Non avreste forse preferito “mantenere vivo il nemico” così da risultare ancora necessario e non perdere l’incarico politico a cui magari tenevate particolarmente?

E’ quello che si sono chiesti 4 economisti di valore nel loro saggio – apparso questa settimana nella prestigiosa collana americana del NBER di Boston  - “The Need For Enemies”:  i colombiani Leopoldo Fergusson e Juan F. Vargas, assieme a James A. Robinson della Harvard University ed al norvegese  Ragnar Torvik.

Gli elettori, argomentano correttamente i 4, anche se non fossero stati ignari di questa tentazione per Uribe, non necessariamente avrebbero votato per un altro candidato: nell’incertezza avrebbero ben potuto risolvere il dilemma tra il votare il candidato più competente a sconfiggere i terroristi (ma meno disposto a combatterli) e quello che avrebbe magari provato a combatterli di più (seppure meno competente) a favore del primo. Così fu in Colombia, argomentano gli economisti con dovizia di dati, e così è spesso in politica.

Non sempre tuttavia. L’esempio più interessante che citano è quello di Winston Churchill, leader britannico (solo) durante la seconda guerra mondiale, non troppo amato dai suoi concittadini, ma prescelto per la sua ben nota capacità di combattere con efficacia, vigore e competenza il nemico tedesco. Non aveva forse Churchill un incentivo a non vincere la guerra pur di rimanere in carica? Ovviamente no: la sconfitta contro i nazisti avrebbe segnato la fine dell’Impero britannico e dunque anche di Churchill. In questi casi drammatici, sostengono gli autori, non si pone il dilemma e il conflitto d’interessi nel politico con un mandato specifico. Non solo, ma in un sistema elettorale come quello britannico, dove la rappresentanza è esercitata meglio a causa della maggiore responsabilizzazione dei politici eletti, il vantaggio di non “fare la cosa giusta” scema rapidamente con la rapida dismissione del politico incompetente.

Ma in altri casi, meno drammatici e in democrazie meno compiute?

In tre occasioni in cui Uribe avrebbe avuto la possibilità di tagliare per sempre la testa dei movimenti terroristici, mostrano gli autori con dovizia di dati e controllando per altri possibili fattori causali, quest’ultimo non ha affondato il colpo: diminuisce a quel punto l’attività dei militari contro i ribelli, invece che aumentare. Non solo, ma i 4 documentano come Uribe utilizzava le apparizioni elettorali specie nelle comunità in cui più ampia era la sensibilità alla lotta anti-terroristica, apparizioni a cui tuttavia seguiva un più ampio calo dell’attivismo dei militari contro i terroristi.

Mi chiederete perché vi parlo di queste cose. Intanto perché sono risultati interessanti di per sé. E poi perché richiamano alla mente tante possibili situazioni.

Una in particolare è quella dei tecnici esperti di economia chiamati in alcuni paesi europei in emergenza finanziaria a gestire la crisi come capi del Governo proprio per le loro specifiche competenze (compresa ovviamente l’Italia). Che incentivi hanno questi credibili tecnici a sconfiggere la crisi? Abbattuto lo spread, il nemico, che ragione avrebbero di essere considerati ancora come “utili per il Paese”?

Ci sono due motivi per cui potrebbe essere possibile l’assenza di sforzo da parte di un politico competente in Europa. La prima è che le cose “non stanno nelle sue mani”. In Grecia, per esempio, la questione della crisi è nelle mani dell’Europa ed è ormai irrilevante la posizione specifica del singolo Presidente del Consiglio (sempre in presenza di un sostanziale accordo dei cittadini greci ai sacrifici imposti dall’Europa).

Più complesso ed intermedio è il caso italiano.

Qualcuno ha già fatto notare sul Corriere (De Rita) come il nostro Presidente ha più interesse a mostrarsi attivo sul fronte estero che non sul fronte domestico. C’è un legame con quanto sopra? Forse sì.

Una democrazia imperfetta e “vicina ad essere commissariata” potrebbe avere un leader competente che può anche temere poco le conseguenze del “non fare” ed anzi si avvantaggia dalla continua sopravvivenza del nemico, lo spread (un “non fare” che certo può ben essere valutato dagli elettori nazionali, anche se questi hanno “poco potere” di disporre del leader). Al contrario, questi leader tecnici mostrano una particolare dipendenza dall’Europa che può deciderne facilmente le sorti individuali. Lo spread in questo caso può essere giustificato come dipendente da “effetti europei” non addebitabili alla mancanza di politiche in Italia (d’altro canto meno accertabili e comprensibili da parte di cittadini, politici ed organizzazioni estere).

Insomma lo spread e la confusione legata alle sue determinanti come potente alleato di un politico competente interessato a mantenersi al comando?

D’altro canto si potrebbe rispondere che la crisi europea è di una tale rilevanza e portata storica che, come per Churchill, non può esistere un conflitto d’interesse e che tutto lo sforzo è profuso per vincere questa decisiva lotta per il futuro del Paese e del continente. Molto possibile.

8 comments

  1. “Insomma lo spread e la confusione legata alle sue determinanti come potente alleato di un politico competente interessato a mantenersi al comando?”

    Un politico competente risponde a determinati interessi, quelli di chi lo ha messo al suo posto; in questo caso non sono stati gli elettori e quindi…
    Ma alla fine lei sta abbandonando la sua atarassia pro domo aliorum dato che si sta accorgendo che stanno per toccare anche la domo sua. Meno male, che sono convinto che lei se si decide a uscire dal guscio sarebbe probabilmente quello di maggiore impatto, forse l’ unico in grado di essere convincente a “tutti i livelli” . Basterebbe non essere sempre così bonariamente elitario e metterci un po’ di passione parlando chiaro come sta cominciando a fare adesso.

    Viene già detto da mesi da tutte le parti comunque, ne prendo uno a caso:

    http://www.grandeoriente-democratico.com/GOD_avvisa_i_somari_del_circuito_politico_mediatico_italiano.html

    Questi sono particolarmente odiosi e pericolosi ma sull’ andamento di agosto hanno indovinato in pieno mentre tutti gli altri lanciavano allarmi di tutti i tipi sulla speculazione che sarebbe arrivata in questo mese. E invece, come hanno detto loro, non è successo niente.

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  2. Buongiorno Professore,
    purtroppo ci tocca già guardare Juve e Inter dal basso e questo rende il luned’, finalmente più fresco, meno piacevole.
    Facezie, ma mica tanto, a parte credo che questo articolo colga veramente un punto focale della crisi che stiamo vivendo.
    Personalmente ritengo che la crisi economica sia solo l’epifenomo della crisi del sitema democratico rappresentativo.
    E’ un sistema in cui il politico che “regala” più soldi ai suoi potenziali elettori ha più possibilità di essere eletto, anche se poi queste regalie nel tempo si riveleranno insostenibili.
    E’ un sistema in cui, come Lei osserva nell’altro articolo sula Consip, da un lato si dice che la Consip deve operare per razionalizzare la spesa e dall’altro le si tolgono i fondi.
    E’ chiaro che non funziona, non può funzionare.
    Non possiamo certo pensare di fare come facevano i romani che in tempo di crisi nominavano il dittatore a tempo, ma forse all’interno di un sistema democratico potremmo anche trovare soluzioni diverse.
    Dove sta mai scritto, per esempio, che la nomina del presidente e del CdA dell’ATAC debbano essere di responsabilità dell’amministazione capitolina?
    Non può questa limitarsi a fissare le qualifiche necessarie per accedere a quella carica e poi, essendo l’ATAC una proprietà dei cittadini romani, essi scelgano direttamente gli amministratori tra coloro che, soddisfacendo i requisiti stabiliti, presentino la loro candidatura? Se non addirittura ricorrere al metodo del sorteggio tra i candidati validi così che nessuno debba fare promesse irrealizzabili e nessuno debba rendere grazie ad alcuno?
    In sintesi quello che penso è che sia necessario ridurre le deleghe al personale politico ed operare con più democrazia diretta, almeno dove possibile.

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    • “Personalmente ritengo che la crisi economica sia solo l’epifenomo della crisi del sitema democratico rappresentativo.”

      Sono pienamente d’ accordo, il punto più importante è proprio questo.

      Bisognerebbe anche rendersi conto che la crisi del sistema rappresentativo non è esclusivamente colpa di una classe politica corrotta e altre parziali verità del genere, ma che da parte dei cittadini c’è un atteggiamento non solo di rassegnazione ma di complicità con il sistema; a mio avviso la via più razionale per una maggiore responsabilizzazione degli elettori è, come ha detto Vincenzo, un percorso progressivo verso la democrazia diretta (per adesso dove è possibile ma cercando gradualmente di allargare il campo).

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      • La scuola è un caso in cui la democrazia diretta sarebbe attivabile domani mattina, almeno in via sperimentale in alcune zone d’Italia, senza neanche dovere fare troppi stravolgimenti all’organizzazione attuale.

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    • Qualcuno le direbbe che il metodo migliore sia la privatizzazione con regolazione. Che ha fallito anch’essa in molte occasioni. Penso che si debba pensare ad una soluzione intermedia del tipo a cui accenna lei, immagini la rilevanza per i posti nella sanità.

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      • Non sono assolutamente un fanatico delle privatizzazioni, sono un “fanatico” della responsabilizzazione.
        Nel campo della sanità ricordo che quando ero bambino (insomma 45-50 anni fa) esistevano le mutue di categoria (lavoratori pubblici statali e parastatali, privati, autonomi e così via) che stipulavano convenzioni con i vari medici e strutture sanitarie, sia pubbliche che private. Per quello che posso ricordare il sistema funzionava piuttosto bene in un’Italia decisamente più povera.
        I dirigenti delle mutue venivano scelti direttamente dai lavoratori aderenti.
        Non era certo un sistema privato nell’accezione di sistema volto a garantire un profitto, ma non era soggetto alla politica e burocrazia. E immagino che i lavoratori chiedessero ben conto agli amministratori di come venivano spesi i loro soldi.
        Certo, rimane il problema della garanzia ai disoccupati. Beh, lo Stato attraverso la fiscalità generale potrebbe garantirgli il pagamento della quota di iscrizione alla mutua di loro scelta.

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  3. Francamente non penso che Monti & c si preoccupino troppo di “restare al comando”, inteso di per sé come obiettivo. Questo ci poteva stare per Berlusconi e per gran parte della nostra pessima classe politica, indipendentemente dallo schieramento.
    Sono d’accordo che usano la tecnica del “tira e molla” per mantenere la crisi ad un livello artificialmente alto, ma solo perché questo gli permette di agire indisturbati e di portare avanti il piano che c’è dietro a tutto questo: costruire la nuova Cina qui in Europa.
    E per questa gente non c’è alcun conflitto di interesse (non del tipo che indichi tu): sono tutti ben piazzati che se anche l’Europa dovesse naufragare loro avrebbero comunque più di una scialuppa a raccoglierli.

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