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Alziamo la posta in gioco, e per fortuna alzaremo anche i salari.

Faccio fatica a seguire Alesina e Ichino su un tema molto importante per le vite di tutti noi come quello della riforma del lavoro verso una maggiore flessibilità.

Siccome l’articolo (Se il posto non è fisso il salario va alzato) ha il pregio di suddividersi in una serie di argomentazioni logiche divise con chiarezza, vale la pena riprenderle una ad una (in corsivo le loro parole).

I benefici del posto fisso (per chi lo ha) sono ovvi. La domanda rilevante è: quanto costa la garanzia del posto fisso al singolo e alla collettività? Un fatto spesso ignorato è che questo costo non è nullo anche per chi il posto fisso già ce l’ha. A parità di altre condizioni, per godere della protezione offerta dall’articolo 18 il lavoratore riceve una retribuzione inferiore a quella che otterrebbe se rinunciasse alla tutela contro il licenziamento. L’imprenditore, infatti, privato della possibilità di licenziare qualora il posto diventasse in futuro improduttivo, sopporta un costo potenziale aggiuntivo, oltre alla retribuzione. Se è disposto a pagare il lavoratore 100 mantenendo il diritto di licenziarlo, vorrà pagare solo, diciamo, 90 per assumerlo senza possibilità di licenziamento. La differenza è una sorta di premio di assicurazione che il lavoratore paga al datore di lavoro per correre meno rischi.

Non c’è il minimo dubbio. Impresa e lavoratore entrano – con o grazie all’art. 18, in un contratto di assicurazione. Ovviamente mutualmente vantaggioso, come avviene ogni volta che si effettua sul mercato uno scambio, per sua natura volontario (non è come l’assicurazione della macchina, obbligatoria). E allora? Buon per loro.

Un contratto di lavoro con salario fisso e sicurezza del posto è in qualche misura anche un contratto assicurativo. Ovviamente più i rischi economici per l’impresa salgono, più l’impresa vorrà far pagare ad alto prezzo questa assicurazione e più basso sarà il salario di un lavoratore con il posto fisso. In periodi turbolenti come questo, quindi, il posto fisso costa molto al lavoratore, perché offrire assicurazione costa di più alle imprese.

Certo. Ma in periodi come questi un posto fisso vale molto di più, il rischio di perdere e non ritrovare lavoro è molto più alto. Dunque è giusto che l’assicurazione sia più cara. Ma sempre di scambio mutualmente vantaggioso stiamo parlando: i lavoratori preferiscono questo contratto ad un contratto, anche più remunerativo se non licenziati, senza questa assicurazione.  Buon per loro.

Ma allora perché in Italia sembra che i lavoratori precari abbiano non solo un posto insicuro ma anche una retribuzione inferiore? Perché i lavoratori protetti, ossia i dipendenti pubblici e quelli nelle aziende sopra i 15 dipendenti, sono difesi dai sindacati mentre i giovani precari no.

Non solo per questo. A volte (spesso) questi contratti sono meno remunerativi per i giovani perché le imprese non li conoscono e li provano, con un salario che li compensa, appunto, per il rischio di sostenere un costo non in linea con la produttività del giovane.

A loro sono lasciate le briciole in una specie di sala d’attesa in cui il giovane invecchia aspettando che qualche lavoratore protetto vada in pensione e liberi il posto sicuro.

Vero, questo è anche dovuto alla riforma delle pensioni. Come mai non attacchiamo la riforma delle pensioni per questo? E poi questo presume che nuove aziende non creino nuovi posti di lavoro e così le pubbliche amministrazioni: perché non li creano? Ci saranno tanti motivi che dovrebbero essere affrontati per la scarsa produttività del lavoro, o no?

… La soluzione che propone il sindacato è semplice: diamo a tutti il posto fisso.

Ma non mi pare proprio. I sindacati hanno accettato in questi ultimi anni una documentata ampia riduzione della protezione del lavoro rispetto ai partner europei e non siamo certo fuori dalla media.

… Un mondo incentrato sul posto fisso è un mondo in cui il welfare lo fa la famiglia, con le risorse guadagnate dal padre (tipicamente unico a godere della sicurezza) e distribuite ai familiari dalla madre che spesso lavora in casa, con nonni e figli adulti che vivono insieme e si assistono gli uni con gli altri….

E perché con il contratto ancora più precario cosa cambierebbe?

Sia ben chiaro: la famiglia italiana ha dei benefici enormi di cui dobbiamo andare orgogliosi. Ma se deve sostituire un welfare pubblico che non funziona, le conseguenze non sono tutte desiderabili. Un sistema di welfare basato sulla famiglia riduce la mobilità geografica e sociale e ostacola la meritocrazia e la concorrenza fra persone e imprese.

La famiglia ostacola la meritocrazia e la concorrenza? Non a casa mia, mio padre e mia madre mi hanno insegnato proprio l’importanza di guadagnarsi e meritarsi il pane senza lamentarsi. Gli devo tutto.

Per poter godere del welfare familiare, che aiuta anche a trovare un impiego grazie ai contatti dei genitori più che alle reali capacità, i giovani promettenti frequentano università mediocri sotto casa o non si allontanano per trovare un posto di lavoro migliore e più adatto alle loro caratteristiche.

Ah, ecco, dovevate dirlo un po’ meglio. Quindi il problema è la corruzione e la riforma dell’università? Concordo! Cominciamo subito dall’attaccare questo problema, ma che c’entra la maggiore precarietà dei contratti di lavoro? E poi, se non si allontanano per un posto fisso perché dovrebbero farlo per un posto precario? Magari vogliamo prima aggiustare la questione dei costi, psicologici e materiali, degli spostamenti e della vita fuori di casa? Comunque io vedo tantissimi miei studenti che partono senza problemi e si avventurano a cercare posti fissi o precari. Magari non li trovano in Italia, ma questo è un altro discorso. Vogliamo di nuovo chiederci perché la domanda di lavoro per giovani è così scarsa? Forse ci sarà qualche altro motivo che non il posto fisso (che dominante è sempre meno con l’attuale legislazione)?

La conseguenza è una minore produttività che si traduce in salari e profitti più bassi anche perché le imprese possono imporre condizioni retributive peggiori non dovendo temere che i lavoratori si spostino altrove se trattati male.

Oddio, mi pare così convoluta la cosa. Chiedete ad una impresa se questo è il suo problema. Ne sarei sorpreso. Le aziende che conosco io, quando cercano, cercano gente brava. Il problema è che spesso non le trovano, ma non è che non le trovano sotto casa, non le trovano in tutta Italia perché enormi sono i problemi della formazione ed istruzione dei giovani. Ma spesso le aziende non cercano. E non cercano a causa della recessione (chi se la sente oggi di assumere?) e a causa delle difficoltà di fare impresa in Italia, quali una pessima Pubblica Amministrazione che aspetta di essere rivoluzionata ed incentivata a fare meglio.

…. Ma il problema vero è che sono gli italiani a volere questa struttura sociale perché non ne hanno ancora compreso i costi….  Dei costi aggiuntivi siamo responsabili noi. La discussione sul posto fisso e su un sistema di welfare impostato sulla famiglia, quindi, va ben al di là di una riforma del diritto del lavoro. Tocca al cuore la mentalità e l’organizzazione sociale degli italiani. La soluzione più facile è continuare a non affrontare il problema. Oggi, perlomeno, ci si sta provando.

Gli italiani hanno compreso benissimo i costi. Del non fare le cose che servono a tutti noi. Del fare le riforme sbagliate o quelle inutili. Del rinviare a chissà quando le vere riforme, difficili da fare, mediaticamente più oscure, ma di cui il Paese ha veramente bisogno. Da tempo, perlomeno, ne stiamo parlando. Ma chi ascolta?

Alziamo la posta in gioco, così potremo alzare i salari, le opportunità dei giovani e la nostra felicità.

 

PS: aggiungo per generare + dibattito il commento or ora arrivato di Mauro Poggi, lettore assiduo ed apprezzato!

Ho letto l’articolo di A ed I e sono abbastanza perplesso. Intanto quello che non capisco è come si continui a confondere il posto fisso con l’art 18. Per quanto ne so io  il posto fisso non esiste: in caso di difficoltà economica il datore di lavoro può licenziare eccome. Di ristrutturazioni aziendali ne abbiamo viste a iosa da sempre. Io stesso, in quanto dirigente d’azienda e amministratore delegato, ho avuto il dispiacere di praticarne quattro durante la mia carriera. Quello che non è consentito, al datore di lavoro, è licenziare senza giusta causa. Anche qui l’art 18 non c’entra, semmai è la legge 604/66 che lo sancisce, e non limitatamente alle aziende con più di 15 dipendenti ma a tutte. L’art 18 stabilisce solo che in caso di licenziamento illegittimo il datore di lavoro è tenuto al reintegro del lavoratore, il quale può optare però per un risarcimento. Nelle aziende fino a 15 dipendenti, è invece il datore di lavoro che può scegliere fra reintegro o risarcimento. Che una vertenza  possa protrarsi anche diversi anni non dipende né dall’art 18 né dalla legge 604, ma dai tempi biblici della giustizia in italia – questo sì un problema per gli imprenditori.

A questo punto viene il sospetto che quello che si vuole abolire non sia l’art 18 in sé, ma il divieto di licenziamento ingiustificato: e vai con l’arbitrio!

Quanto alla tesi secondo cui l’art 18 comporterebbe una compressione dei salari perché su quelli ci sarebbe una sorta di pedaggio assicurativo che il datore fa pagare, beh, è tutta da provare. Allo stesso modo è possibile sostenere che una volta abolite le tutele del lavoratore questi sarebbe obbligato ad accettare qualunque condizione, e non solo dal punto di vista economico, visto che si verrebbe a trovare in una posizione di estrema debolezza contrattuale: non dico che non ci siano datori di lavoro illuminati, ma non è su costoro che ci si può basare per riscrivere le regole.

17 comments

  1. Giacomo Gabbuti

    15/02/2012 @ 19:30

    Ho seguito, qualche settimana fa, un dibattito nel circolo del PD vicino casa tra Ichino e Damiano proprio sull’articolo 18. Le condivido un’impressione: c’è una differenza sconcertante tra l’Ichino “pubblico” e quello che ho potuto osservare lì.
    In quell’occasione mi ero ricreduto, sulla persona prima che sul merito. Confrontandomi anche con altri presenti all’incontro, appariva incredibilmente “umano”. Qui ritrovo argomentazioni gelide, se non insultanti, come quella che lei riporta: “i giovani promettenti frequentano università mediocri sotto casa o non si allontanano per trovare un posto di lavoro migliore e più adatto alle loro caratteristiche”. Ma questi illustri professori che ci insegnano la microeconomia se la dimenticano quando si parla di realtà? O si vuole far finta che i giovani stiano a casa per COMODITA’ e PIGRIZIA, quando è proprio per assenza di studentati, borse di studio e mercati degli affitti degni di uno Stato di diritto! Ci diranno di nuovo che le tasse sono troppo alte, quando è una falsità, perché siamo ben al di sopra dei paesi che hanno sistemi di istruzione universitaria pubblica – non ha senso fare paragoni con Inghilterra e USA, facciamoli con Olanda, Francia, Svezia…
    Tra l’altro, il discorso del lavoro fisso come “assicurazione” mi sembra privo di ogni rigore logico e profondamente inquietante da un punto di vista “etico”. La natura umana è, mediamente, avversa al rischio: perché l’italiano dovrebbe essere da meno? Ci sono individui che non lo sono, e per questo godono spesso di benefici superiori – ma non si può pensare un sistema basato sulla propensione al rischio, prima di tutto perché è inconciliabile con la realtà delle cose!
    Un conto è non “tarpare le ali” a chi vuole, un conto è sostenere che sia “naturale” e “auspicabile” una società balcanizzata in cui padre e figlio cercano di rubarsi il lavoro.

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      • Giacomo Gabbuti

        16/02/2012 @ 18:26

        Svista clamorosa, ringrazio per la doverosa segnalazione. E’ che spesso la sensazione è stata la stessa leggendo anche articoli del Senatore, perciò son partito in quarta.

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  2. Buona sera Professor Piga.
    In un sistema libero si dovrebbe lasciare alla libera contrattazione delle singole parti la scelta tra una retribuzione più alta senza la tutela dell’articolo 18 oppure il veceversa. In Italia invece vi è una scelta per legge.
    In una azienda dovrebbero potere coesistere, per loro libera scelta, lavoratori protetti dall’articolo 18 e altri non protetti che preferiscono essere pagati di più.
    comunque il vero porblema non sta secondo me in questo fatto, proprio perché alla fine si tratta solo di scegliere tra l’opzione A e quella B.
    Il punto è proprio la “giusta causa”. E’ vero che bisogna evitare le discriminazioni sindacali, di genere, razza e quant’altro, ma è altrettanto vero che probabilmente questi casi non sono tantissimi e forse si può trovare qualche altro modo per difendere il dipendente.
    Il problema, e credo che riguardi la maggior parte dei casi, sta nel fatto che l’articolo 18 protegge quelle persone che sono palesemente negative per l’azienda.
    Le assicuro che in 30 anni di lavoro ne ho incontrate molte, decisamente di più rispeto ai discriminati.
    Persone che regolarmente mandano certificati di malattia quando sono in vacanza all’estero, persone che se subiscono un lieve tamponamento in macchina accusano terribili dolori di schiena e via discorrendo.
    Ma ancora peggio sono quelli il cui mestiere preferito è lo scaricabarile.
    Le racconto un paio di casi di molti anni fa.
    Il primo di questi casi in azienda a un certo punto divenne quasi paradigmatico. Riguardava un venditore, che non concludeva mai niente, che subissava le persone del servizio tecnico con continue richieste per prodotti impossibili per potere acquisire contratti multi-miliardari.
    A chi gli faceva notare che non concludeva mai nulla lui rispondeva che non era certo colpa sua se non riusciva mai a chiudere le opportunità che si procurava visto che i tecnici non erano mai in grado di fornirgli il prodotto adatto. Peccato che quel prodotto esistess solo nella sua fantasia.
    Il secondo caso è ancora più buffo e riguarda sempre un venditore inconcludente che non si sapeva come mandare via.
    Una sera ero a cena con degli amici e ci raccontavamo aneddoti sulle rispettive professioni quando uno di questi, un medico, raccontò di un buffo caso accaduto a un paziente, che era anche suo amico. Nel raccontare il fatto ne fece il nome e io così scoprii che si trattava di questo mio collega. A quel punto dissi al mio amico medico che era un mio collega e questo trasecolò. Sapeva che io mi occupavo di prodotti chimici ed era invece convinto che quest’altra persona facesse il rappresentante di abbigliamento, visto che ogni tanto comprava da lui alcune cose.
    In altre parole questo qui non andava dai nostri clienti per vendere prodotti chimici ma per vendere calzini. Ottima ragione per essere assolutamente inconcludente.
    Non cito poi i casi delle malelingu che mettono in giro le voci più maligne che portano solo a guardarsi in cagnesco l’un altro, i cavillosi e via discorrendo.
    Per tutte queste persone, e sono frequenti, esiste la giusta causa, ma nessun tribunale la riconoscerà mai.
    Venendo poi al fatto che i giovani non si vogliono allontanare, perché pensa che l’altra sera le abbia scritto che i lavori offerti sulla base del programma che lei ha preparato dovrebbero essere offerti fuori dal comune di residenza?
    I giovani non si vogliono allontanare, è una verità sconsolante.
    Nel mio piccolo l’ho potuto sperimentare con i miei figli, che per fortuna entrambi lavorano (forse perché si sono impegnati nel modo giusto ben sapendo che, per scelta, non sarebbero mai stati aiutati dalla famiglia a trovarsi il lavoro).
    Sarebbero entrambi nelle condizioni di potersi fare una bella esperienza all’estero per imparare cose nuove e accrescere la loro professionalità, ma nessuno dei due, in particolare il ragazzo, ci ha mai fatto un serio pensiero. Francamente ne sono dispiaciuto anche perché personalmente, sono pentito di non averlo fatto io quando avrei potuto. E so che ci ho rimesso.
    Sulla questione pensione sono perfettamente d’accordo con il governo che ha alzato l’età pensionabile, anzi io l’avrei lazata ancora di più, almeno per chi ha mansioni di tipo intellettuale (io voglio andare in pensione nella bara).
    La ricchezza si crea lavorando, non stando in pensione. Al limite si potrebbe studiare un sistema di lavori part-time per i lavoratori oltre una certa età in modo che la loro esperienza serva da insegnamento ai più giovani.
    Cordiali saluti,
    Vincenzo S

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    • La cosa + bella del blog per me è ricevere storie come questa, di persone che conoscono la vita bene, da cui imparare.
      In parte mi sembra che lei si schieri con Poggi sulla vera problematica dell’art. 18: io credo di essere d’accordo con voi, ma non vedo allora perché sollevare un trambusto di opinioni come quelle nell’articolo di A & I che nulla hanno a che vedere con l’aspetto dei tempi del giudizio e il merito sulla giusta causa.
      Ma qui penso che lei sia d’accordo con me: se i suoi figli non vogliono partire via da casa, pensa che sia un problema dovuto al dilagare (…) del posto fisso? Suvvia . E’ una questione di carattere, di personalità e di costi di spostamento. Non aiuta certo che si studi così poco l’inglese. E non aiutano tante altre cose. Ma il posto fisso non è il problema. Stiamo perdendo energie preziose nell’esigenza di riformare il paese dividendoci, come per i tassisti, sul posto fisso. Il nostro PIL non tornerà a crescere dell’1% in più ogni anno grazie a questa riforma, ma nemmeno dello 0,1%. I veri problemi sono altri.
      Sulle pensioni, ribadisco. Moltissime aziende hanno buttato nel cestino tanti piani di assunzione di giovani: lei ha ragione che la ricchezza si crea lavorando, e quindi penso possa capire che la riforma ha anche levato questa opportunità a tanti, giovani. Di questo non parla nessuno. E, in questo momento di recessione, secondo me è era da evitare, lo scoraggiamento dei giovani. Abbiamo giovani che vorrebbero lavorare e non possono, e anziani che non vogliono lavorare e devono: secondo lei ci abbiamo veramente guadagnato per pochi miliardi di risparmi? Il problema è che contiamo solo i risparmi e mai l’effetto di questi.

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      • Lei ha perfettamente ragione sul fatto che i risparmi non significano nulla presi isolatamente laddove non si vada e vedere l’effetto complessivo che essi hanno sull’insieme dell’attività.
        Se ricorda bene, la carriera politica di Burlando venne stroncata da una serie di incidenti ferroviari che avvennero quando lui era ministro. Beh, molto semplicemente, per fare quadrare i conti ed entrare nell’euro, si erano sospese tutte le attività di manutenzione (le ho già detto che vengo da una famiglia di impiegati pubblici – mio fratello lavora al Ministero dei Trasporti, le voci girano).
        Nello stesso periodo la pubblica amministrazione non pagava le ditte che facevano le pulizie, anche questa è una cosa che so in forma diretta.
        Insomma i greci per truccare i conti sono venuti a lezione da noi, l’hanno solo fatta un po’ più sporca.
        Ma questa è una divagazione.
        Vengo alla domanda che lei pone: se i suoi figli non vogliono partire via da casa, pensa che sia un problema dovuto al dilagare del posto fisso?
        Lei dice che è un porblema di carattere, di personalità, di costi degli spostamenti. Le rispondo che sono vere le prime due cose, non la seconda, almeno nel loro caso. Nel peggiore dei casi, e peraltro non sarebbe stato il loro, per quanto riguarda lo spostamento trova qualcuno con cui condividere l’appartamento, quello che mio padre fece fino al momento in cui non sposò mia madre visto che si era spostato dalla Sicilia a Roma.
        Ma le prime due cose, il carattere e la personalità, non sono cose innate. Nascono, o perlomeno sono fortemente influenzate, da ciò che uno sente in famiglia, a scuola, alla televisione. Se tutti i “maestri” decantano, soprattutto nei fatti, le virtù del posto fisso, pensa che il giovane, una volta completato il corso degli studi se la sentirà tanto di rischiare? Ci sono certamente molte lodevoli eccezioni ma, nel giro delle mie conoscenze non conosco nessuno che una volta cresciuto si sia messo d’accordo con altri amici per prendersi una casa insieme e allontanarsi dalla protezione dei genitori.
        Schwarzenegger è diventato un attore e un politico di successo perché a 18 anni, insieme ad un amico ha lasciato Graz, non certo un luogo dove si muore di fame, per andarsene in California. Forse a Graz avrebbe allla fine fatto una tranquilla vita asutriaca ma, come ha detto Steve Jobs era hungry and foolish.
        Lo trasmettiamo noi questo messaggio ai giovani? Lo trasmettono questo messaggio gli anziani che non vedono l’ora di smettere di lavorare?. Tante volte mi sembra che chi lavora abbia iniziato a lavorare pensando al momento in cui sarebbe andato on pensione, non a quello che avrebbe creato durante la sua vita lavorativa. Così non si trasmette a chi è giovane la propensione ad affrontare l’avventura del lavoro, della vita con il giusto grado di immaginazione, di propensione al rischio, di iniziativa. Così, invece, a partire dai banchi dell’asilo formiamo generazioni di burocrati.
        A cominciare dalla famiglie dove nessuno ha il coraggio di togliere dalle mani dei figli la playstation per metterci un libro.

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        • Verissimo quello che lei dice. Ma, credo, come disse De Gregori un calciatore non lo vedi dal fatto che sbaglia un calcio di rigore. Ma dal coraggio e da tante altre virtù.
          Se una persona non si sposta ma ha altre virtù, beh, molto meglio di uno che si sposta e non ne ha. Non entro nei casi particolari, ma insomma tutto quello che c’è di bello in noi va esaltato credo.

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      • Sono d’accordo con Vincenzo che esistono casi che gridano vendetta. Ne potrei citare anch’io. Gli chiedo però: sono davvero così numerosi da giustificare lo smantellamento di un sistema di tutele che a mio avviso è sacrosanto?
        Secondo me le storture sono due, ed entrambe riguardano la giustizia: 1) la lungaggine intollerabile dei processi 2) il fatto che il giudice tenda sempre e comunque a privilegiare la parte ritenuta più debole, quindi nel dubbio dà ragione al lavoratore.
        Per quanto riguarda i giovani e la ricerca del posto di lavoro, penso con il professore che è una questione di carattere. Io ho due figli: mia figlia a vent’anni è partita per l’Inghilterra e lì ha vissuto per 10 anni; mio figlio ha preferito cercare un lavoro “in zona” famiglia, accettando anni di precariato prima di ottenere un impiego a tempo indeterminato. Carattere, appunto.
        Una parola sulle discriminazioni, sindacali o altro. I casi non sono tantissimi, ma forse dipende proprio dal fatto che in materia esistono regole. Chi ci assicura che in loro assenza le cose non cambierebbero? Mi risulta che dei 1845 lavoratori che a oggi la FIAT di Pomigliano ha richiamato dalla CIGS non uno è iscritto alla FIOM…

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        • Io ho portato alcuni esempi che non pretendo essere la verità assoluta ma solo sintomi del male che ci affligge un po’ tutti, la poca voglia di avventurarsi in acque ignote.
          Anche le piccole aziende che restano piccole per non volere introdurre nuovi soci e nuovi capitali sono figlie dello stesso ambiente.
          Riguardo alle possibili discriminazioni avevo scritto che si possono trovare altre forme che non siano l’articolo 18.
          E poi, comunque, se la FIAT non richiama gli iscritti alla FIOM non sarà perché li considera elementi negativi per l’azienda?
          Abbiamo tutto il diritto di dare due calci nel sedere a nostra moglie/marito se non andiamo più d’accordo, nonostnte il fatto che al momento del matrimonio ci siamo giurati eterno amore. Certo, la cosa ci costa, ma dopo aver pagato il dovuto, ognuno per la sua strada. E non c’è certo bisogno che il partner ci abbia tradito per dire che non ne vogliamo più sapere.
          Per quale misterioso e insondabile motivo un contratto non può essere rescisso pagando un indennizzo e basta?
          Insomma, sarebbe come che al marito che non ne vuole più sapere della moglie (o viceversa, caso in verità più frequente) il giudice imponesse di tenersela in casa. Sarebbe una follia.
          Se fossi il proprietario di un’azienda e non sopportassi un dipendente per i più svariati motivi, anche futili ma miei, perché me lo debbo tenere? Perché mi dovrei fare venire un fegato grosso così ogni volta che lo vedessi e quindi non dirigere adeguatamente l’azienda? Si stabilisca l’entità del risarcimento, amgari elevato così che a nessuno venga in testa di licenziare qualcuno perché è tifoso della Lazio e non della Roma, e basta, ma niente reintegro.
          Sulla giustizia d’accordo al 100 %

          Reply
  3. Stefano Caiazza

    16/02/2012 @ 12:04

    Caro Gustavo,
    trovo molto interessanti e condivisibili le tue argomentazioni come quelle delle persone che hanno già commentato il tuo post.
    Mi permetto di aggiungere un piccolo contributo.
    L’articolo esordisce chiedendosi quale siano i costi per la collettività e per il singolo del posto fisso ma, probabilmente nella foga di scrivere, Alesina e Ichino dimenticano di domandarsi quale siano i benefici per la collettività e per l’impresa de posto fisso.
    Nell’ambito delle teorie neokeynesiane, il posto fisso garantisce sicurezza e stabilità che, come citano gli autori, è un bene molto ricercato soprattutto dai giovani, forze giovani, fresche e desiderose di lavorare. Tale sicurezza e stabilità si traducono in incentivi a lavorare bene per tenersi stretto questo che a tutti gli effetti, a partire dalla teoria degli efficient wages in poi, è un contratto di assicurazione. Il problema sono le degenerazioni, come raccontato da chi ha già commentato il post. Ma per questo non serve buttare a mare il posto fisso ma intervenire, anche con la moral suasion verso i sindacati ed i giudici del lavoro, per rendere efficaci ed incisivi i licenziamenti per giusta causa.
    A livello della collettività tale sicurezza e stabilità si riflette sulle aspettative delle famiglie e quindi sulla capacità di organizzare e programmare piani stabili di consumo e risparmio. E’ vero che di fisso non c’è nulla perché ogni impresa può fallire (ed anche lo Stato. Basta vedere il default di fatto della Grecia e come i costi si stiano scaricando anche sui dipendenti pubblici) ma non vi è dubbio che le aspettative sono più stabili se il posto è fisso. Anche perché se tutti lavorano bene, con diligenza e onestà , e lo fa anche l’imprenditore ed il management in caso di imprese più grandi, la possibilità di sopravvivere in questo ambiente turbolento cresce (potrei raccontare anche io, per esperienza di un mio caro amico, come l’imprenditore si sia creato attraverso un giro di fatturazioni false un buffer di soldi in nero, e come alle prime avvisaglie della crisi abbia licenziato tutti i lavoratori dicendo che le finanze dell’azienda erano dissestate ).
    Un ultimo accenno ad una frase di Ichino a e Alesina che mi ha colpito: “Un sistema di welfare basato sulla famiglia riduce la mobilità geografica e sociale e ostacola la meritocrazia e la concorrenza fra persone e imprese”.
    Vi leggo, al di là della frase di circostanza precedente, una visione riduttivi sta e “brutale” dell’uomo, delle sue relazioni, del suo ambito lavorativo. La dignità dell’uomo si sviluppa incerchi concentrici ed è a mio avviso indubbio che la famiglia rappresenti un cerchio più alto rispetto a quello del lavoro. Nella famiglia l’uomo si realizza come persona. Nella famiglia si genera nuova vita (in una visione neoclassica dovrei dire nuovi consumatori/imprenditori). Nella famiglia, accudendo i genitori anziani e la nuova vita si trova una dimensione altruistica dell’uomo che riduce la tendenza al self-interest e che, secondo diversi economisti, filosofi e teologi, è la dimensione che conduce alla vera felicità. Laddove il lavoro, per molti ma non per tutti, è visto come gravoso e necessario per sopravvivere, ossia per avere quel salario che permette di realizzarsi (anche) al di fuori del mondo del lavoro.
    Se vogliamo anteporre le dinamiche lavorative ai rapporti familiari, riconducendo tutto ad una massimizzazione e minimizzazione di funzioni di profitto e di costo, cosa sarà dell’uomo domani? Della società? Dei nostri figli?

    Reply
    • Nella Genesi alla atto della creazione si dice che il Signore pose l’uomo nel giardino dell’Eden affinché vi lavorasse. E’ successivamente, nel momento della cacciata dall’Eden che il Signore dice all’uomo “lavorerai con il sudore della tua fronte). Il lavoro non è condanna, lo è la fatica che si fa per compierlo, così come per mantenere buoni rapporti in famiglia.
      non sono un work-alcoholic, sono una persona che sa che attraverso il lavoro esprimo il mio potenziale.
      La disquisizione sul posto fisso o meno ha in realtà poco a che fare con il fatto che il lavoro sia fisso o meno. Ha aa che fare con la visione che si ha del lavoro; un qualcosa che in primis facciamo per noi stessi, per fare valere le nostre capacità, o un qualcosa che ci deve solo garantire la pagnotta e da scansare appena possiblie.
      E’ su questo che ci dobbiamo interrogare, non sul fatto che se le aziende abbiano o meno interesse a llicenziare, è ovvio che anche per le aziende fidelizzare il lavoratore e farlo sentire parte di un corpo unico è estremamente importante. Per lo meno per le aziende gestite bene, non da filibustieri.
      Se il sindacato, invece di interessarsi dei massimi sistemi, fosse più presente a controllare come funziona verametne l’azienda, credo che i CEO criminali non avrebbero molto spazio. Lo stesso vale per gli azionisti che ormai si dimenticano di essere proprietari di un pezzo di azienda.
      E’ interessante il discorso sullla famiglia, proprio perché è in famiglia che si imparano virtù come il risparmio e l’etica lavorativa.
      Ho l’impressione che, almeno dal punto di vista del risparmio, tale insegnamento sia venuto meno, sostituito da quello di far circolare la moneta consumando cose inutili.
      E’ secondo me paradigmatico che la parola capitalismo sia ormai diventata sinonimo di finanza sfrenata, speculazione e quant’altro.
      Il capitalismo è invece risparmio volto all’investimento in beni capitali, a partire dal bue, il primo bene capitale della storia dell’umanità da cui deriva la parola capitalismo (l’ho sentita l’altra sera in televisione), per tirare l’aratro per arrivare ai trattori, ai torni ai capannoni alle raffinerie di petrolio alle strade. Risparmio che è fatto rinunciando al consumo di oggi (in forndo dal bue potremmo trarci tante belle bistecche e fare una bella grigliata con gli amici).
      Come ho già scritto, in famiglia compriamo ai nostri figli qualche libro in più e qualche playstation di meno.

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      • Non sono certo di concordare che discutere di posto fisso o meno equivalga a discutere di merito vs. pigrizia. Ha anche a che fare con una battaglia liberale per la protezione di interessi più deboli e meno tutelati dalla storia del mondo e delle cose. Poi ci sono le patologie e qui concordo.

        Reply
      • Giacomo Gabbuti

        16/02/2012 @ 18:56

        “Non sono un work-alcoholic, sono una persona che sa che attraverso il lavoro esprimo il mio potenziale.” Condivo per la mia occupazione attuale, che è lo studio. Finito il liceo, ho “deluso” professori, amici e parenti scegliendo economia, pensando di indirizzare la mia volontà di studio su temi il più possibile “utili” a chi non avrebbe avuto la mia fortuna e la mia indole, oltre che permesso una rapida emancipazione e possibilità di andare all’estero.
        Ciò non vuol dire che pretenda o creda lo stesso di tutti quelli che ho intorno. C’è chi dà il meglio nella “produzione”, nel lavoro, nell’analisi; chi nella famiglia, nel no profit, nella “società”.
        Questo “ferisce” in gran parte del dibattito economico e politico: l’idea che esista una sola umanità, storicamente stabile, e che le istituzioni sociali ed economiche debbano solo assecondarla.
        Non intendo difendere i casi di cui lei parla – credo anche che far passare da un tribunale la certificazione del motivo economico vada a danno della stabilità, “evitando” qualche licenziamento per mezzo del fallimento dell’impresa tutta.
        Ma la ricerca o meno della stabilità è un dato sociale e culturale che non può essere imposto per decreto da governi tecnici o peggio dall’esterno. E ci richiede di pensare alle cause ultime del nostro vivere in società – oltre che al diritto dello Stato di determinarle.

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  4. Stefano Rocchi

    16/02/2012 @ 13:47

    Caro Gustavo,
    io non ho risposte ma solo domande (talvolta anche poco intelligenti).
    1) A costare (soprattutto alla collettività) è il “posto fisso” oppure l’eventuale inefficienza del lavoratore che ha il “posto fisso”?
    2)La P.A. , architrave del posto fisso, può essere (storicamente) considerata come una grande iniziativa di attuazione di ammortizzatore sociale?
    3) Nel nostro tempo è più importante volgere l’attenzione al posto di lavoro o al lavoratore? Quindi, il problema è la difesa del posto di lavoro (fisso o flessibile) oppure la creazione di lavoro e di posti di lavoro (fissi o flessibili)?
    4) Perchè non cambiamo l’angolo da cui osservare il mercato del lavoro? Invece di: io impresa offro un lavoro fisso, a tempo, flessibile, ecc . Dire: Io impresa offro un lavoro. Tu aspirante lavoratore scegli come svolgerlo. (Questa probabilmente fa parte delle domande poco intelligenti)
    5) Perché tu lavoratore puoi scegliere? Perché hai avuto il mondo della scuola, dell’Università, della formazione, dei servizi pubblici, del credito ecc dalla tua parte. Povero lavoratore! Poveri giovani!
    Varrà comunque la pena ricordare che “L’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro” . La politica non giochi sul lavoro inventando formule ed alchimie giuridiche ma sul lavoro (inteso nella più ampia accezione), costruisca il futuro del nostro Paese e dell’Europa.

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  5. Stefano Rocchi

    16/02/2012 @ 15:42

    A proposito di lavoro…

    L’AUDIZIONEIl presidente dell’Istat alla Camera
    “Occupazione giovanile continua a calare”Secondo Giovannini “nei primi tre trimestri del 2011 sono andati persi altri 80mila posti”. Una flessione del 2.5 per centoLo leggo dopo ROMA – Continua a calare l’occupazione dei giovani tra i 18 e i 29 anni. Lo ha detto il presidente dell’Istat, Enrico Giovannini, durante un’audizione alla Camera. “A fronte di una moderata crescita complessiva, nella media dei primi tre mesi del 2011, l’occupazione giovanile ha subito una flessione del 2,5% (circa 80 mila unità)”. Nello stesso tempo, ha poi sostenuto, “il tasso di disoccupazione dei giovani tra 18 e 29 anni è sceso dal 20,5% del primo trimestre 2011 al 18,6% del terzo trimestre, rimanendo almeno 11 punti percentuali al di sopra di quello complessivo. Tuttavia – ha sottolineato infine – se si considera la fascia di età 15-24 anni, come proposto dall’Unione europea, la disoccupazione sale al 31%, la più alta dopo la Spagna”.

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  6. Stefano Caiazza

    17/02/2012 @ 07:46

    E’ interessante la citazione di Genesi 3,17-19.
    Dio condanna l’uomo alla fatica ed al sudore del lavoro perché l’uomo ha peccato contro Dio. E’ la conseguenza del peccato, ossia del male che l’uomo compie. L’uomo non è mai il male ma può compiere il male. E se il male può essere banale, per usare le parole della Arendt, le conseguenze del male non sono mai banali poiché implicano sofferenza e dolore per l ‘uomo.
    Se vogliamo rimanere in questo ambito, lavorare con fatica non dipende dal tipo di contratto lavorativo ma dallo stato d’animo dell’uomo, dal suo orientamento spirituale. Il posto fisso non induce ozio. L’ozio nasce prima nel cuore dell’uomo. L’etica del lavoro, che la Chiesa cattolica ha da sempre sostenuto, non dipende dalla forma contrattuale ma dal modo in cui è orientato l’uomo. Sono valori dell’uomo che o sono presenti o sono assenti ma non dipendono da ciò che sta fuori dall’uomo.
    Se il lavoro è il nuovo vitello d’oro a cui prostrarsi, poiché l’obiettivo è il riconoscimento altrui, la fama (da cui nasce anche la fame di denaro), il riconoscimento del valore dell’uomo, ebbene quest’uomo potrà anche essere un precario ma resterà persona che ha orientato la sua vita verso falsi idoli. E’ una vita falsa poiché vissuta adorando falsi idoli. Veramente si può pensare che un uomo “è” ciò che altri gli riconoscono?
    Un uomo che “porta a casa la pagnotta” non è disprezzabile se fa bene il suo lavoro e si impegna. E’ persona che ha capito che il lavoro è importante ma che esiste un modo che è altro rispetto al lavoro e nel quale è richiesto di dare il suo contributo senza esimersi dal farlo, e al meglio delle sue possibilità, nell’ambiente lavorativo.

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  7. A me pare del tutto infondata, cioè priva di qualsiasi riscontro reale, l’idea dei i salari siano bassi a causa dell’articolo 18. Sostenere una cosa del genere inoltre è contrario alla logica. I salari sono il frutto di una contrattazione. Quando i salari sono più alti? Quando la parte debole si rafforza, vuoi perché è protetta dalla legge, vuoi perché si iscrive a un sindacato combattivo, o ancora per altri motivi.
    In Italia i salari medi sono bassi, ma quelli dei precari sono ancor più bassi. Il Germania i salari dei dipendenti sono notevolmente più alti ma anche lì quelli dei precari sono decisamente bassi.
    Questo non deve sorprendere, è del tutto ovvio se si guarda a come funziona la realtà. Ma purtroppo gli economisti come Alesina e Giavazzi non guardano la realtà seguendo la lezione di Keynes, ma solo le proprie fantasie modellistiche.

    Aggiungo inoltre che i bassi salari sono un problema macroeconomico. Come hanno sottolineato Stiglitz e Fitoussi, la riduzione dei salari in atto da 20 anni è parte essenziale della scarsa domanda. E, inoltre, è parte dell’altissimo indebitamento privato, soprattutto negli USA dove la crisi è scoppiata.

    Insomma, come si pensa di poter risolvere la crisi commettendo gli stessi errori che l’hanno creata?

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