Pubblicato oggi sul Sole 24 Ore
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Lo spread tra titoli di stato italiani e tedeschi è tornato stabilmente al livello dell’inizio 2020, cioè di prima dell’annuncio dell’approvazione da parte delle autorità europee di quel massiccio supporto finanziario all’Italia, con un programma di investimenti pubblici su 6 anni, dal nome PNRR.
Nel giro di pochi mesi dalla partenza del Piano il differenziale di costo del debito scese drasticamente a 100 punti base, riducendosi alla metà del suo valore iniziale. Tuttavia, mano a mano che diveniva sempre più evidente la nostra incapacità di mettere a terra gli investimenti previsti, lo spread riprendeva lentamente ma inesorabilmente a crescere, fino appunto ai livelli odierni.
Il segnale che proviene dal nostro spread, indicatore per antonomasia del rischio finanziario della Repubblica italiana, andrebbe dunque analizzato con cura: i mercati reagiscono positivamente a prospettive di crescita via investimenti pubblici, fondamentalmente perché vedono in questa dinamica (una volta approvata dall’Unione europea) il migliore antidoto contro il rischio di un fallimento, grazie al noto e forte effetto sul PIL, e dunque sulla riduzione del rapporto debito-PIL, di tali investimenti.
A conferma della correttezza degli umori attuali dei mercati, l’Italia rimane, malgrado il valore stanziato dal PNRR sia di gran lunga maggiore di quello per qualsiasi altro Stato membro, un Paese che non cresce più degli altri e il cui rapporto debito-PIL al massimo tende a stabilizzarsi ma non a ridursi.
Contrariamente alle aspettative iniziali, lo scenario roseo che il PNRR al suo avvio aveva generato si è dissipato: inevitabile che fosse così, di fronte all’incapacità della nostra Pubblica Amministrazione di mettere a terra nei tempi previsti i progetti identificati. Avevamo messo in guardia sin dalle prime settimane dalla pubblicazione della composizione del Piano che la totale assenza di attenzione per il capitale umano dei nostri dipendenti pubblici chiamati ad attuarlo (la carenza dopo anni di austerità delle piante organico degli enti territoriali chiamati a fare gare, l’aver immaginato una mole risicata e a tempo determinato di assunzioni, per il tramite di quiz a risposta multipla, i compensi risibili previsti per figure esperte) avrebbe messo a rischio la credibilità momentaneamente acquisita dai primi stanziamenti europei.
La crescita che non si è materializzata ha portato per quest’anno il nostro Governo ad effettuare una minore austerità (deficit su PIL che scende sì, ma solo da 5,6% a 5,3%) per non mettere a rischio ulteriormente i numeri della nostra economia. Ma è evidente che nulla è cambiato nell’atteggiamento europeo rispetto al nostro Paese che è stato forzato a sottoporre l’ennesima NADEF in cui si conferma l’impianto austero del Fiscal Compact, mai veramente messo in soffitta. Non a caso l’Italia si è impegnata a portare il deficit dal 5,3% del PIL di quest’anno al 3% entro il 2026, con un’austerità di proporzioni gigantesche per un Paese così debole come il nostro e con, per il 2024, un disavanzo primario al netto delle spese per interessi che dovrà scendere da 1,5% di PIL a 0,2%, fatto che renderà la già irrealistica aspettativa di crescita del PIL (1,2%, ma i previsori la fissano allo 0,8%) impossibile da materializzarsi, con tutte le inevitabili conseguenze su di un rapporto debito-PIL che non potrà che crescere.
Questa manovra restrittiva di 25 miliardi di euro trova conferma nelle tante voci che circolano su potenziali tagli lineari di spesa. Tanto più probabile, l’austerità, vista l’enfasi che ha caratterizzato questo Governo nel 2023 dove, per il tramite dell’inflazione (al 5,8%), la spesa pubblica reale è scesa, al netto degli interessi, del 5%, con i redditi da lavoro dipendente al -5,1%, i consumi intermedi della P.A. al -3,7%, le prestazioni sociali al -1,6%, il totale delle spese in conto capitale a quasi il -20%: così ci dice la NADEF.
Una serie di tagli lineari, per il tramite del combinato disposto di costanza di spesa in termini nominali e inflazione che ne ha eroso il valore reale, che non ha potuto che riflettersi in minore domanda interna e minore qualità della P.A. a servizio di cittadini e imprese. Sempre lontana è la spending review di sapore britannico in cui si decidono i settori strategici in cui spendere i soldi del contribuente e si investe sulla lotta agli sprechi per il tramite di personale competente (si pensi alle stazioni appaltanti e alla loro attesa riforma organizzativa via riqualificazione e carriere) motivato con stipendi attraenti.
Se tanto ci dà tanto, per il 2024 continueremo con questi tagli dirompenti e dannosi, investendo probabilmente nulla su quella madre di tutte le riforme che è la nostra capacità amministrativa. Un dato per tutti racconterà lo stato in cui versa ad esempio la formazione dei nostri (pochi, visto che ne abbiamo persi 300.000 per strada in questo decennio di austerità) dipendenti pubblici: 3,4 ore di formazione annuale per dipendente…
E così Europa e Italia ripetono ad infinitum l’errore chiave di chiedere per il Paese austerità in cambio di cattiva spesa invece di pretendere buona spesa via spending review e golden rule con investimenti pubblici finanziati in deficit, abbattendo il debito su PIL e i sospetti reciproci che questi lunghi anni di stagnazione e di instabilità rafforzano. Eppure la via da seguire richiede solo una forte leadership, da ambo le parti.
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