Oggi non ho tempo di postare, scusatemi. Per noi di Tor Vergata è stata una bellissima giornata, abbiamo dato la laurea Honoris Causa ad un grande economista francese, Jean Tirole, dell’Université de Toulouse. E’ stato un evento importante, che unisce di più due Facoltà di Economia che ambiscono. Ambiscono a diventare internazionali e capaci di generare opportunità. Toulouse già ce l’ha fatta, grazie a quest’uomo, Jean Tirole, che ha dedicato la sua vita a tirare su una macchina di formazione e ricerca di eccellenza. Per noi è un modello da seguire e speriamo di farlo ancora di più negli anni a venire.
Ora scappo ad un seminario. Vi lascio con alcune riflessioni sul futuro del nostro Paese che ho discusso qualche giorno fa ad un incontro dove mi si chiedeva di dire cosa dovrebbe fare una nuova forza politica. Non sono un tuttologo, ma mi sono sforzato di elaborare qualche pensiero.
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… Il mantra attuale, espresso anche da Hollande che sì il rigore non è più sufficiente (chi potrebbe contraddirlo?) ma rimane condizione necessaria, ci condurrà alla rovina. Il rigore, l’austerità, nelle condizioni attuali, generano decrescita e dunque in ultima analisi instabilità dei saldi di finanza pubblica. In questo contesto necessitiamo di crescita per generare stabilità. La Grecia parla chiaro, così come parlano chiari i dati sull’andamento del rapporto Debito sul PIL in Italia.
Prescindo dalla gravissima situazione occidentale, in cui Stati Uniti ed Europa hanno cessato di essere da decenni la locomotiva mondiale, e da quella attuale europea. Ma esprimo su quest’ultima un enorme disagio per l’atteggiamento di un’area comune che aspira invano a paragonarsi al progetto statunitense. Paragone fallace: negli Usa la California produttiva non chiede l’uscita del permanentemente meno produttivo Tennessee.
Ma torniamo a noi. Bisogna spendere meno? Non così, ha detto il Premio Nobel Stiglitz al Presidente Monti pochi giorni fa (“usate le tasse per spendere e non rimborsare il debito: crescerà il PIL”). Non così, dice tutta l’evidenza empirica disponibile sia dal Fondo Monetario che dalla BCE, che dalla Banca d’Italia: più spesa pubblica, più domanda, più produzione, più reddito, più occupazione. Specie in periodi di crisi come questi.
Non è vero che (mantra numero 2) “non ci sono i soldi”. Ci sono per pagare i debiti della P.A. (basta emettere più titoli di Stato e questo senza ridurre il vero stock di debito complessivo pubblico). Ci sono per spendere lì dove c’è bisogno, in spesa per acquisti di beni e servizi, riducendo gli sprechi che spesa non sono, ma meri trasferimenti su conti correnti bancari (magari all’estero) di alcuni imprenditori.
La riqualificazione della spesa, che permette di spendere gli stessi euro per più ecotomografi e macchine TAC, genera meno profitti per il singolo imprenditore che ha vissuto di rendita ma più profitti e più occupazione per il sistema delle imprese e per il Paese. Così ragiona anche la spending review inglese che non parla di tagli ma di individuare dove spendere di più e dove trovare i fondi per finanziare tali maggiori spese nei settori strategici.
Questa riqualificazione va tuttavia inserita in un ambito più ampio. Non può essere fatta da tecnici ed in maniera casuale. Va fatta da dal popolo italiano e dunque dalla politica. Deve trovare un faro che li guida: e questo faro sono i “valori”, che devono essere espressi nel tipo di domanda pubblica che vogliamo portare nel territorio. In un contesto, ovviamente, globalizzato, ossia una domanda pubblica che aiuti le nostre imprese ad imporsi – grazie ad uno Stato che le supporta con intelligenza strategica – nel mondo.
Valori che non possono chiamarsi “meritocrazia”: quella, come diceva il Premio Nobel Sen, permette ai più ricchi di vincere sempre, perché partono avvantaggiati nella gara per essere più bravi. No, valori che ogni partito politico deve sposare sono quelli che garantiscono”le pari opportunità di partenza”.
E tali pari opportunità devono poggiare dunque su cosa? Sul soddisfacimento delle domande che provengono a voce alta e a volte disperata dal territorio: domanda di protezione di tali pari opportunità. Combinare dunque una crescita economica non tanto con mera sostenibilità, come va di moda dire oggi, ma con le pari opportunità di partenza.
Proteggere chi? Chi è più debole. Chi è più debole? Vedo tre attori.
Le piccole e nuove imprese. Che sono svantaggiate nel credito, negli appalti pubblici, nella regolazione, nelle competenze senza che tutto ciò gli possa essere addebitato. Perdere una gara con una grande impresa in una gara d’appalto per una piccola è inevitabile, ma il mantra del “merito” che aggiudica la gara alla grande perché sa fare prezzi più bassi va contro le pari opportunità. Lo sanno gli Usa che riservano il 25% delle gare di appalti solo alle piccole, in nome della concorrenza, del dinamismo, delle pari opportunità.
I giovani. Che sono svantaggiati nell’accesso al mondo del lavoro, che non hanno un accesso a esperienze adulte che fanno crescere come le avemmo noi (il servizio militare e civile per un anno), e che sono – come le piccole nuove imprese – il seme del futuro. L’unico seme del futuro.
Gli esclusi. I disoccupati, gli scoraggiati, i carcerati, gli oppressi dalle mafie, gli sconfitti dalla corruzione.
Se lasciamo soli questi attori deboli senza creare pari opportunità il Paese muore. Una forza politica che si rispetti deve trovare la forza, appunto, di sostenere e proteggere queste fasce dominanti della popolazione, dargli speranza, coraggio, futuro.
18/05/2012 @ 17:08
Gentilissimo Professore,
sembra che ultimamente le piccole imprese siano quasi “demonizzate”.
A me fanno simpatia (al contrario di certe multinazionali) perché le trovo espressive di una realtà più umana, più legata al territorio e alla tradizione.
Inoltre, non so se sia un luogo comune, ma mi pare che in Italia siano state più “virtuose” le piccole e medie imprese di certe grandi (es Fiat).
Perchè ora tutto questo accanimento? C’è un motivo per cui un’azienda grande debba essere migliore di una piccola dal punto di vista dell’economia? In certi settori la produzione quasi artigianale non è un valore aggiunto rispetto all’impersonalità della standardizzazione?
Sono perfettamente d’accordo con lei su tutto, compresa la necessità di garantire pari condizioni di partenza e opportunità, di proteggere chi è più debole; sono contraria a quel tipo di meritocrazia (distorta) a cui accenna, ma secondo me esiste anche una “meritocrazia” buona per cui, ad esempio, il concorso da primario o da docente lo vincono i candidati più preparati e capaci.
Grazie per i suoi articoli sempre profondi, interessanti e sinceri.
18/05/2012 @ 22:01
Ottimo intervento, come sempre.
2 parole per gli esclusi .
Vedo a Roma sempre più povera gente, senza più speranza .
Perchè non proviamo a costruire qualcosa per loro, sono convinto ce ne siamo tanti che non vogliano semplicemente sopravvivere .
Un progetto pilota, semplice, che permetta a molte persone di essere occupate ogni giorno ed avere una piccola remunerazione , per qualcosa di socialmente utile.
Si faccia promotore, sono sicuro che le idee non mancheranno.
Con cordialità e stima
18/05/2012 @ 22:35
Caro Professore,
io La esorto all’azione.
In Italia non esiste più un dibattito politico.
Ma solo omologazione.
Occorre riempire un vuoto e farlo “nella” politica.
Monti è il volto “presentabile” di logiche vecchie ed antidemocratiche.
Non possiamo rifugiarci sull’Aventino di una superiorità intellettuale: ci macchieremmo della stessa responsabilità di questi tecnici “irresponsabili”.
Bisogna uscire allo scoperto.
E farlo prima che sia troppo tardi.
19/05/2012 @ 08:41
E cosa vi ha detto Tirole?
19/05/2012 @ 10:24
Svolgere policies di favore per piccole imprese, giovani e “esclusi”, è semplicemente fuori dall’agenda della governance europea, al di là di dichiarazioni di facciata.
Tutto quello che predicano, in “soldoni”, si riduce a deflazione-”svalutazione interna” forzosa (via disoccupazione e riduzione salariale) imposta ai paesi “debitori” senza alcuna simmetria di riequilibrio imposta anche ai “creditori” in surplus, nel cui interesse si governa rigidamente l’Europa.
Non ci sono molti dubbi su questo e, anzi, a vedere i dati, per l’Italia la “festa” è appena cominciata:
http://www.econ.kuleuven.be/ew/academic/intecon/Degrauwe/PDG-papers/Discussion_papers/Symmetries.pdf
19/05/2012 @ 19:16
Ha ragione, è stata davvero una bella giornata per noi di Tor Vergata, anche per noi piccoli studenti che abbiamo visto molta “scienza” abbinata a tanta umanità, e di questo la ringrazio.
21/05/2012 @ 18:30
Da qualche tempo non leggo più riferimenti a situazioni storiche e contemporanee nella stampa; ho l’impressione che questo taglio totale con i riferimenti ai fatti che hanno preceduto nel tempo l’attuale situazione economica ed anche culturale non sia casuale e non sia una vostra prerogativa ma un indirizzo generale. Abolire i precedenti impedisce una valutazione ragionata: non a caso non ci sono più riferimenti a tutta la classe politica italiana presente negli anni che vanno dal 1946 alla caduta del muro di Berlino. In pillole : l’Italia a partire dal 1961 è entrata nell’epoca della grande demagogia, ha vissuto economicamente bene grazie al lavoro e al risparmio di due o tre generazioni precedenti e al ruolo di Einaudi, De Gasperi e di tutta l’equipe del Partito Liberale sia nel campo economico che in quello dell’istruzione pubblica. L’alto livello della scuola italiana che riusciva a portare ai primi posti anche i ragazzi cresciuti in condizioni estremamente disagiate era il fiore all’occhiello della politica dei vari Ministri primo fra tutti Salvatore Valitutti (vale la pena che vengano riesaminate le sue tracce).
“L’abbassamento del livello di studio dell’istruzione pubblica anzichè rappresentare un modello di eguaglianza sociale rappresenta un boomerang terribile per chi non ha i mezzi di mandare i figli nelle scuole private o all’estero, ed è la vera discriminazione di classe”
Questo concetto fu artatamente accusato di “classismo” da tutta la sinistra e in primis dai sindacati e così si dette inizio allo smantellamento della struttura pubblica. L’abisso di ignoranza attuale si può valutare paragonando un dettato della licenza elementare negli anni ’40- la licenza non veniva data se vi era un errore di grammatica o di scrittura- alla situazione delle tesi universitarie che, secondo una statistica pubblicata periodicamente sono, dal punto di vista linguistico, redatte in un italiano incomprensibile ed improbabile. Non è casualità ma è il passo determinante per uniformare al basso il popolo che Orwell divideva in tre fasce: alti, medi e bassi. A questo punto di manipolazione, sorretta dall’ignoranza e dalla mancanza di riferimenti, poiché la storia è stata frazionata in modo da perdere il filo conduttore, qualsiasi follia trova spazio e ascolto .
L’inflazione: la posizione della Germania, a partire dalla fine della II Guerra Mondiale, a prescindere se il Parlamento fosse social-democratico o liberal-cristiano, è stata costantemente quella del “qualsiasi sacrificio, qualsiasi sforzo, mai più l’inflazione”.Il ricordo della Repubblica di Weimar era ed è talmente traumatico che mio padre, all’epoca poco più di un ragazzo, ne parlava ancora sgomento raccontando delle famiglie tedesche che con una valigia di carta moneta a stento compravano il pane per un pasto. Bisognerebbe leggere i romanzi legati a quel periodo ambientati in Germania dopo il 1917 come negli Stati Uniti dopo il 1929. Occorre rileggere “Furore” di Steinbeck per capire cosa volesse dire morire letteralmente di fame nelle campagne sconfinate dell’agricoltura statunitense.
Successivamente in Germania, negli anni ’70, il partito social-democratico decise di rivedere completamente la sua posizione marxista e, con le tesi di Bad Godesberg, si chiuse la fase delle nazionalizzazioni selvagge e si scelse un’economia nazionale basata sulla libera iniziativa, soprattutto privata, ma controllata grazie allo Stato sociale. Non si parlò più, anni dopo, né di capitalismo nè di liberismo ma solo di liberalismo; anche perché De Gaulle aveva spiegato chiaro e tondo chi sono, come agiscono, quale potere assoluto esercitino i gestori del capitalismo finanziario cioè dei pezzi di carta.
In poche parole affermare che bisogna stampare carta moneta a vuoto, cioè senza un fattore economico concreto alle spalle, equivale a depredare quanti lavorano e producono e risparmiano comportandosi in maniera opposta a quel sindacalismo e a quei politici radical chic che sostenevano e sostengono che la ricchezza va divisa anche quando non c’è.
Illudere la gente che ci si possa permettere di vivere in un debito costante in attesa di risalire chissà quando la china è pura Utopia.
Ricordiamoci di una frase di un dissidente sovietico degli anni ’70 “l’utopia finisce sempre in un bagno di sangue”.
Non c’è discolpa per i ladri che hanno e stanno depredando le persone e le famiglie dei risparmi, delle case, della loro attività, e soprattutto del futuro dei figli col pretesto che il risparmio è inutile e che i soldi “devono girare” anche quando in realtà non esiste ricchezza. Questi ladri che navigano nel loro felice Medioevo(400 famiglie o giù di lì) sono assai più forti di un secolo fa, da quando Gomorra ne condivide gli interessi.
Peccato che il discorso di allargare nelle varie facoltà lo studio della storia intesa come storia politica, delle religioni, dell’arte e dell’archeologia, come una seconda laurea, sia rimasto almeno in Italia un sogno nel cassetto. Valori aveva cercato di raggiungere questo obiettivo: ormai messo nella soffitta dei pii desideri.