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Lettera aperta ad Alberto Alesina: di Europa, topi, leoni, del Mississippi e di Robert Kennedy

Ha ragione Alberto Alesina a difendere i tedeschi. Se difendiamo i tedeschi e gli sforzi eccezionali che hanno fatto in maniera lungimirante in questi anni per rimettere in piedi la loro economia, difendiamo l’Europa.

Se il progetto Euro dovesse fallire non sarà certo una responsabilità dei tedeschi”.

E di chi Alberto? Dei francesi? Dei greci? Degli italiani?

Strana contraddizione questa del tuo articolo di oggi sul Corriere, dove inizi parlando dei nostri padri fondatori che volevano evitare conflitti,ti infervori giustamente per far cessare le accuse ai tedeschi perché mettono a  repentaglio l’armonia europea. Senza renderti conto che accusando gli altri fai la stessa cosa che fanno coloro che tu accusi.

Il problema sta a monte Alberto. L’Europa che vogliamo, come diceva Jean Monnet, è l’Europa della libertà (concetto un po’ in disuso rispetto agli anni cinquanta, ma che dobbiamo sempre ricordare ai nostri giovani perché nulla mai è un dato acquisito) e della diversità.

La libertà è messa a rischio quando i processi democratici vengono mano a mano accentrati nelle mani di pochi senza che i molti possano dibatterne e incidere sulle decisioni. Questa Europa che accelera, come dici tu, e che ci chiede una “perdita di sovranità”, addirittura rispetto alla Germania, non può essere decisa in poche settimane né liquidata come fai tu con un “così sia. Dovevamo pensarci prima”: pensi forse di parlare ad un bambino un po’ monello o a una comunità di milioni di cittadini europei? Non pensi che questo modo di procedere esautorando addirittura il Parlamento europeo sia il parassita che sta facendo seccare la bellissima pianta europea?

E poi la diversità. La diversità, quella che fa la forza degli Stati Uniti di America del Mississippi e della California, non chiede come fai tu “riforme strutturali decise, incisive e veloci” per germanizzare i greci. Mai sentito chiedere al Mississippi nulla di simile. Anche nel momento di peggiore scontro sul cambiamento via dal razzismo Robert Kennedy portò risorse risorse risorse per gli afroamericani più poveri ed umiliati di quello Stato, lasciando al movimento civile interno gran parte della lotta per migliorarsi.

Non lo si fa, chiedere di cambiare subito, non solo perché è eugenetica del quasi peggior tipo, non solo perché è impossibile ma anche perché è un disvalore, l’omogeneità delle culture e delle strutture economiche e sociali. Ci sono strutture istituzionali, tradizioni, culture che non vogliamo e non dobbiamo perdere se pensiamo di volere con questo progetto conquistare il mondo con la nostra cultura europea, affascinando e dialogando con Cinesi, Giapponesi, Sudamericani, Statunitensi, Indiani, fieri del nostro passato e certi che in esso loro riconoscano la nostra grandiosità come noi la loro.

Ogni federazione si regge sulla generosità altrui, perché ogni Unione, da quella tra un padre ed un figlio, a quello tra persone che si amano, a quella di Stati che vogliono progettare insieme un futuro di pace e prosperità, si regge sul supporto dei più forti ai più deboli, a quelli momentaneamente o permanentemente in difficoltà, dei leoni ai topolini.

Certi che un giorno, come disse Jean La Fontaine, i topolini salveranno i leoni. E che, sempre nello stesso poema, “pazienza e lungo tempo fanno di più che la forza e la rabbia”.

Le Lion et le Rat

Il faut, autant qu’on peut, obliger tout le monde :

On a souvent besoin d’un plus petit que soi.

De cette vérité deux Fables feront foi,

Tant la chose en preuves abonde.

Entre les pattes d’un Lion

Un Rat sortit de terre assez à l’étourdie.

Le Roi des animaux, en cette occasion,

Montra ce qu’il était, et lui donna la vie.

Ce bienfait ne fut pas perdu.

Quelqu’un aurait-il jamais cru

Qu’un Lion d’un Rat eût affaire ?

Cependant il advint qu’au sortir des forêts

Ce Lion fut pris dans des rets,

Dont ses rugissements ne le purent défaire.

Sire Rat accourut, et fit tant par ses dents

Qu’une maille rongée emporta tout l’ouvrage.

Patience et longueur de temps

Font plus que force ni que rage.

(PS: l’autre Fable, l’altra favola, è la Colomba e la Formica”).

6 comments

  1. Non pensa la morale della favola di La Fontaine valga per i rapporti sociali fra le classi oltre che per gli stati europei? Io credo che nonostante le difficoltà del momento ci troviamo in un passaggio storico estremamente favorevole per una “revisione” del patto sociale. Bisognerebbe riuscire a dimostrare che oltre alla politica e l’ economia è necessario un nuovo senso di appartenenza perché è quello l’ unico elemento in grado di dare un orizzonte di senso agli inevitabili sacrifici che tutti dovranno affrontare.

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  2. Gentile Professore, il 15 marzo ho lasciato due righe al suo post del giorno precedente. Mi colpisce nuovamente questo suo scritto; tiene insieme molte discipline e argomenti. Bene, nutre gli spiriti per essere critici (e non proni), per guardare alle vicende umane decentrandosi; cambiando punto di osservazione e cornice. Mi colpisce perchè ci sono gli altri animali. Oltre a ciò che le ho rappresentato allora, lavoro anche con i più piccini (6-13 anni) sui temi della Convivenza civile e il Rispetto dell’Altro, assumendo il punto di vista degli animali non umani. I nostri incontri (le bambine, i bambini ed io) diventano un’Accademia dove si impara ad essere filosofe/i, scienziate/i, cittadine/i con l’aiuto (la relazione con) degli Altri animali non umani; grazie alle lezioni di etica che ci danno, grazie alle biografie dei singoli. Capiamo meglio noi stessi in presenza dell’Alterità, quando le facciamo spazio di cittadinanza; ci disponiamo allo spiazzamento e forse, a ridere di noi. Impariamo a non sopraffare ma a comprendere, nella diversità o somiglianza che sia. Questo nostro è un progetto piccino picciò e concordo con Lei Professore: “i Topolini salveranno i Leoni”. E noi continueremo a comporre Haiku e Limerick per celebrare la loro grazia. Buona vita a tutti.

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  3. Buon giorno Professore,

    ho scoperto il suo interessante blog tramite un amico che mi ha inviato il suo commento all’articolo di Alesina sul Corriere di Mercoledi’e da quel momento mi sono subito lanciato in una maratona di scrittura che mi ha tenuto intensamente occupato per due giorni. Spero con risultati degni del suo blog.

    A mio avviso, le critiche che lei avanza nei confronti di Alesina sono ingiustificate. I due aspetti dell’articolo sui quali lei dibatte sono:
    1) la liberta’ dell’Europa. A suo dire l’articolo, accusando alcuni paesi europei di un men che virtuoso comportamento economico, sembrerebbe giustificare una perdita o diminuzione della democrazia all’interno del parlamento dell’EU, e di liberta’ in Europa in favore della Germania;

    2) la diversita’ dell’Europa. Sempre secondo lei, l’articolo, partendo ancora dal men che virtuoso comportamento economico di alcuni paesi, auspicherebbe una generale omogeneizzazione o meglio una germanizzazione caratteriale dei paesi europei e della EU (tirando in ballo addirittura passati fantasmi di teutonica eugenetica).

    Per quanto riguarda il primo punto, credo che Alesina abbia solo parlato di usare la diligenza del bonus pater familiae nel gestire i conti dello stato e nel programmare/pianificare poliche economiche, finanziarie e sociali realisticamente gestibili e proporzionate alle risorse disponibili. Non voglio immaginare che a lei questo aspetto sia sfuggito. Credo che cio’ di cui Alesina parli nei paragrafi secondo e terzo sia solo la capacita’ di certi stati di applicare elementari principi di pura e semplice ragioneria e di attenersi al piu’ stretto buon senso nella gestione economica, finanziaria e sociale dello stato. Di ragioneria di stato si tratta, ma pur sempre di semplice ragioneria.

    Non credo di aver letto da nessuna parte nell’articolo, che Alesina approvi possibili svolte antidemocratiche dell’EU in favore della Germania o di qualsiasi altro paese europeo. Il fatto che i vari governi tedeschi e la Germania siano stati capaci di tenere a posto nel corso degli anni (e ancor piu’ dall’avvento dell’Euro) i loro conti meglio di altri, che abbiano saputo sfruttare le proprie caratteristiche sociali e nazionali a questo scopo e con questo obiettivo ( “Se i tedeschi sono più produttivi e hanno costi del lavoro per unità di prodotto piu bassi cosa dovrebbero fare: lavorare meno e peggio per aiutarci? È una colpa produrre Audi e Bmw che tutti vogliono?”), secondo me, dimostra solo che i loro politici sono stati politici veri, statisti piu’ preparati e migliori di quelli che hanno governato molti altri paesi da decenni a questa parte.

    Questi politici meno preparati, per decenni hanno soltanto assecondato e ammansito a puri fini personali ed esistenziali (propri e di partito), le piu’ irrealistiche richieste di forze sociali ingessate e pelose, prigioniere di vecchi schemi sociali ed economici. Per questi politici che non si sono mai preoccupati di fare i conti con l’avvicinarsi dell’ineludibile giorno del redde rationem, l’obiettivo e’ sempre stato la rielezione non il bene nazionale. Il prossimo governo, non loro, si sarebbe occupato delle riforme impopolari. E cosi’, anno dopo anno, con questo gioco del cerino ci siamo ficcati dove siamo.

    Gli interessi personali e di partito sono sempre stati lo strumento del quale questi politici espressione (spesso falsata) della democrazia si sono serviti per dare ai propri paesi politiche sociali, economiche e finanziarie completamente disgiunte dalla realta’ sociale e avulse dalle reali capacita’ economico-finanziarie e dalle risorse del paese. Hanno usato il microscopio invece del telescopio per guardare lontano.

    Se e’ vero quanto lei paventa e cioe’ che “la libertà è messa a rischio quando i processi democratici vengono mano a mano accentrati nelle mani di pochi senza che i molti possano dibatterne e incidere sulle decisioni”, sappiamo che questo e’ gia’ successo ed e’ ancora piu’ vero all’interno di tanti paesi, Germania inclusa. E succede ogni giorno. La grande differenza credo sia che in certi paesi, nonostante la (quasi) fisiologica presenza di oligarchie al potere, i governi espressioni di tali nazioni hanno saputo gestire il bilancio della loro “famiglia” guardando lontano. Pianificando a tutti i livelli e con professionalita’ e preveggenza un sistema nazione economico e finanziario solido, efficiente, equo e realistico. Nonostante anche loro vivessero e vivano in democrazie elettive, tutto e’ stato preventivamente pensato ed integrato in un ragionevole e sostenibile progetto di lungo termine, avente come obiettivo il bene comune della nazione. Si puo’ fare. E’ un progetto economico, finanziario e sociale di vita presente e futura a livello nazionale, non uno slogan buono solo per le prossime elezioni.

    Questa realta’ di fatto in questo momento di grande crisi, secondo me puo’ giustificare che chi e’ stato piu’ virtuoso (o piu’ lungimirante) di altri, venga chiamato (o voglia chiamarsi, visti i sacrifici fatti) a far da tutore a chi ha dimostrato di non essere cosi’ capace o pronto nel gestire la propria “famiglia” in maniera altrettanto efficiente. In altre parole, il fatto che chi e’ stato piu’ bravo di noi a gestire la cosa pubblica possa ora essere chiamato, o si chiami, a precettore di altri meno capaci non mi scandalizza piu’ di tanto; saro’ miope o ingenuo, ma non vedo in questa eventualita’ un attentato alla liberta’ degli altri paesi europei da parte della Germania.

    Il secondo ed il terzo paragrafo dell’articolo sono esempi perfetti del pensiero di Alesina a questo riguardo. Se la cura per uscire dalla crisi, e per far si’ che al riproporsi di altre crisi l’Europa non corra piu’ pericoli di questo genere, comporta il legiferare in modo che i poteri del parlamento europeo vengano temporaneamente ridotti o cambiati (non esautorati), oppure l’introduzione (finalmente) di regole che comincino a consolidare l’espressione geografica EU in una vera entita’ politica, allora che cosi’ sia. E’ meglio avere la bella pianta di cui lei parla ancora viva ma trattata con i pesticidi perche’ torni in salute, piuttosto che morta completamente. Passata la malattia i pesticidi non serviranno piu’ e la pianta tornera’ (scusi l’assonanza) ai soli acqua e sole. Ora, putroppo, credo sia il momento dell’adesso o mai piu’.

    Passiamo ad affrontare il secondo punto. Le ““riforme strutturali decise, incisive e veloci” per germanizzare i greci” non sono richieste come lei vorrebbe far intendere per germanizzare i greci tramite qualche oscuro metodo Ludovico, ne’ al fine di snaturare la cultura e le caratteristiche peculiari (stereotipate??) di nessun altro paese europeo. Se e’ pur vero che le caratteristiche di cui sopra incarnano lo stereotipo di tutto quanto e’ tedesco, e’ innegabile che i tedeschi non ne abbiano il copyright e che tantissimi altri paesi siano capaci di muoversi, agire e funzionare in quel modo. Come e’ anche possibile che i tedeschi, in certi casi e situazioni, non siano i piu’ decisivi, incisivi e veloci. Tutto e’ relativo.

    Detto questo, immagino che anche in Grecia conoscano ad applichino la ragioneria e che sappiano come gestire efficientemente una famiglia, una societa’, un’amministrazione. I bilanci in Grecia (come altrove) non sono regolati da principi generali diversi rispetto al resto del mondo. Negli Stati Uniti, in Mississipi come in California si applicano gli stessi principi, e il governo federale non dice ai singoli stati come gestire i loro bilanci semplicemente perche’ non e’ previsto dalla costituzione. L’Europa non ha ancora una costituzione che sancisca queste regole o i principi secondo i quali i bilanci degli stati dovranno essere tenuti e controllati. Con il suo paragone, secondo me lei non confronta, come si direbbe in Inglese, apple to apple. L’Europa non si trova ancora in quella situazione e questo primo passo legislative e’ forse uno dei possibili modi in cui il problema della politica economica dell’EU potrebbe essere risolta. Uno dei tanti primi accenni di legge fondamentale comune a tutti gli stati europei che li vincoli economicamente e finanziariamente in maniera efficace e coerente. Uno dei primi faticosi passi verso una costituzione comune.

    La diversita’ che fa la forza cui le fa riferimento, negli Stati Uniti non deriva dal fatto che il governo federale non impone agli stati le regole second le quali devono gestire i loro bilanci, bensi’ da fattori come la diversa storia, le diverse risorse a disposizione, le diverse culture e tradizioni locali, il diverso tessuto sociale. Nonostante tutte queste diversita’ gli Stati Uniti sono uno stato. Noi no, non ancora. A parer mio, non risulta da nessuna parte che Alesina nell’articolo sostenga la tesi che per il bene dell’Europa si devono cancellare tutte queste preziose diversita’, ne’ credo che nella realta’ dell’EU nessuno possa e/o voglia farlo.

    Anche nel caso europeo ci sono state migliaia di risorse fornite dall’EU a tutti gli stati membri, a tutti i livelli ed in tutti i campi. Alcuni ne hanno saputo fare buon uso e utilizzarli al meglio, altri ne hanno saputo trarre vantaggio in altri modi, altri ancora non sono neanche riusciti ad utilizzarli a causa della propria disorganizzazione (o magari ne hanno fatto usi personalizzati e clientelari, nascondendosi proprio dietro la disorganizzazione statale).

    Voler mettere ordine in questa pericolosa disorganizzazione, introdurre regole severe per la tenuta dei bilanci statali, secondo lei significa voler cancellare la diversita’ degli stati europei? Alesina nel suo articolo non mi sembra invocare “l’omogeneità delle culture e delle strutture economiche e sociali.” Semmai invoca una migliore gestione di quelle strutture, migliore gestione che purtroppo, al punto in cui siamo giunti, si puo’ solo raggiungere con l’adozione di certe regole. Nessuno, tantomeno Alesina nello spitito del suo articolo, vuole cambiare, cancellare, dimenticare o omogeneizzare la cultura europea. Anzi semmai il contrario, dimostrare come con le nostre forze e nonostante le nostre culture siamo in grado di farcela. Dimostrare che anche altri oltre alla Germania sono in grado di adottare comportamenti virtuosi e che tutti abbiamo cosi’ tanto coraggio e fede nel progetto EU da rinunciare ad un po’ della nostra sovranita’ per il bene comune.

    E’ vero che come dice lei ogni federazione si regge anche “sulla generosità altrui, perché ogni Unione, da quella tra un padre ed un figlio, a quello tra persone che si amano, a quella di Stati che vogliono progettare insieme un futuro di pace e prosperità, si regge sul supporto dei più forti ai più deboli, a quelli momentaneamente o permanentemente in difficoltà”, purtroppo noi in Europa non siamo ancora a quel punto. Quello e’ magari il nostro obiettivo, ma per ora ne siamo ancora lontani. Nonostante il fatto che i paesi piu’ deboli e/o meno vistuosi abbiano avuto tutto il tempo per mettere mano ai loro risaputi problemi e risolverli con il costante aiuto economic e finanziario dell’EU, questo non e’ accaduto. Ora la parte diligente, la Germania e pochi altri, senza (voler) dimenticare, ne cancellare le diversita’ degli altri paesi europei, chiede che questi problemi siano risolti con l’adozione di misure appropriate. La parte diligente chiede che per il bene comune questi problemi siano risolti alla svelta perche’ altrimenti non ci sara’ piu’ alcuna EU. La realta’ globale nel contesto della quale viviamo, la storia e l’esperienza ci dicono che senza un certo rigore, incisivita’, decisione, velocita’ e coraggio al momento giusto, i conti da pagare (socialmente, economicamente, politicamente) possono diventare estremamente salati e possono innescare reazioni inaspettate e tragiche.

    Chiudo questo mio lunghissimo post con un passo di un articolo di P. Krugman (“Revenge of the Optimum Currency Area”) che ho letto in questi giorni a proposito dell’Euro e della crisi in Europa. “Why did they believe it would work? I won’t try for a detailed historiography; let me just say that what I recall from discussions at the time was the belief that two factors would make the adjustment problems manageable. First, countries would adopt sound fiscal policies, and thereby reduce the incidence of asymmetric shocks. Second, countries would engage in structural reforms that would make labor markets – and, presumably, wages – flexible enough to cope with such asymmetric shocks as occurred despite the soundness of the fiscal policies.”

    Credo che quell “first, countries would adopt sound fiscal policies….” e poi “second, countries would engage in structural reforms….” spieghi bene che il problema si riduce fondamentalmente tutto a chi ha fatto i compiti e chi no. In definitiva, questo credo sia anche lo spirito dell’articolo di Alesina. Se ora chiediamo agli alunni piu’ bravi di fare i capoclasse, significa che vogliamo impedire agli altri di essere quelli che sono o che vogliamo omogeneizzare il resto della classe?

    Grazie tantissime per la sua ospitalita’ sul suo blog, e spero di non averla tediata troppo con le mie elucubrazioni da expat Italiano triste per la sua Italia.

    Paolo Forlano

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    • Grazie Paolo. Vado per gradi. La libertà era questione assente dall’articolo di Alberto e il deficit democratico non lo riferivo alla Germania, casomai alla Commissione europea. Partivo dall’aridità di una visione che è ben diversa da quella di Jean Monnet. Lei ha ben capito: la ragioneria non fa l’Europa ed il buon padre di famiglia è anche quello che uccide il vitello più grasso per il figliol prodigo. Ben altra deve essere la nostra visione sull’Europa che la ragioneria. Che pur non va dimenticata. Ma che non ci salva dal rischio di rovesciamenti anti-democratici, specie se preceduti da recessioni, come avenne negli anni 30 nella Germania pianificatrice ed ordinata nei conti.

      In cambio dell’unione bancaria che riduca i tassi che le imprese pagano e di una qualche forma di «socializzazione» del debito, i Paesi come il nostro dovrebbero legarsi le mani con programmi di riforme accettate, condivise e, sì, controllate dall’Unione Europea. Se questo significa perdita di sovranità nei confronti della Germania, così sia. Dovevamo pensarci prima. Ecco per me questo tipo di reazione, visione, diciamo benevolmente così … “semplice” dei processi decisionali, la trovo anti democratica. Possiamo discuterne se vuole.

      Io sono un fan della Germania come stato e come economia. Grande paese. idioti i giornali (ecco qui sì che sono d’accordo con Alberto) che fanno titoli che fanno male all’Europa. Sì hanno avuto dei veri statisti, come Kohl per esempio. Se vuole parliamo del perché. La Merkel è una buona politica, non è una grande statista. Ma il problema è che la Germania non se la sente di fare la leader dell’altro progetto, quello europeo. Ha paura di essere leader credo per ben note paure di apparire come dominatrice, senza rendersi conto che è così che finisce per ricordare a molti il suo passato. La misura del successo della Germania, detta in un altro modo, io non la misuro sul successo tedesco (indubbio) ma sull’insuccesso europeo (finora). Il telescopio la Germania l’ha usato a casa sua, non nella sua nuova casa. Capisco che era troppo chiedergli.

      Lei ha ragione sulla nostra non lungimiranza, anche se è facile dirlo ora, lo dicono tutti. Forse andava detto quando facevamo i trucchi di bilancio con il consenso dei tedeschi e quando le banche tedesche finanziavano con mazzette ai funzionari greci l’acquisto di sottomarini tedeschi da parte del governo greco. Io l’ho detto, nel 2001, e non mi ricordo di molti che vennero in mio soccorso.
      Il mio paragone con gli usa era apple to apple nei limiti in cui non paragono con gli usa di oggi ma con gli usa di allora. Mi creda, sono tante le lezioni che possiamo apprendere. Un altro articolo utile è sulla Voce e sull’esperienza australiana: legga di come la diversità ha contato per spiegare gli esiti finali. Dobbiamo porcelo il problema! Agli americani che conosco bene verrebbe da ridere se qualcuno usasse il linguaggio che usiamo noi per mettere in riga gli Stati, mi creda. Frasi come “L’unico modo per convincerla a essere più accondiscendente è di fare riforme strutturali decise, incisive e veloci, senza se e senza ma” fanno parte di un repertorio a loro ignoto. E capisco bene il perché.

      Non leggo nell’articolo di Alberto nessun interesse benché minimo alla diversità delle culture. Forse lo dice in un altro articolo, ma siccome li leggo tutti perché è per me fonte di arricchimento intellettuale e stimolo al confronto, le assicuro che non ne leggo da anni, di riferimenti di Alberto alla diversità come valore per l’Europa. Non credo gli interessi. In linea con il disinteresse ce dimostrano le cieche politiche di bilancio – disastrose e uniformi – che ha voluto l’Europa in questi anni. D’altro canto se abbiamo un problema ora, mi creda, è perché a forza di camminare guardando per terra e non verso la strada si va a sbattere. Gli Stati Uniti non sarebbero mai entrati in crisi profonda se l’Alabama non avesse pagato il suo debito, mi creda. Noi siamo riusciti a fare di un piccolo fuocherello un incendio, e la ragione è che abbiamo parlato per 15 anni solo di contabilità. Si finisce per morirci sui numeri sa, se non si guarda al bello.

      Il pezzo di Krugman che lei cita è un vero caso di apples with pears: Usa oggi con europa oggi. Il Krugman che amo è quello che scrive “The difference, mainly, is that we think of ourselves as a nation, and blithely accept fiscal measures that routinely transfer large sums to the poorer states without even thinking of it as a regional issue — in fact, the states that are effectively on the dole tend to vote Republican and imagine themselves deeply self-reliant. The thing is, we didn’t always think of ourselves as a nation, either. Before the Civil War, people talked about “these United States”; it was only after the war that “these” became “the”.

      Con stima

      gp

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