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Sì all’Europa sovrana, no alla sovra-Europa

Ho sempre pensato che vi fosse qualcosa di significativo quando personaggi rilevanti appartenenti ad istituzioni di una qualche altrettanto significativa rilevanza, nel corso di un loro discorso ufficiale, deviano dal sentiero prescritto dallle pagine bianche con caratteri neri e parlano a braccio, aggiungendo dettagli che tradiscono una voglia di dire di più senza lasciarne troppe tracce ufficiali.

Lo ha fatto ovviamente anche Mario Draghi alla Lezione Federico Caffè ascoltabile su Radio Radicale ma il cui testo ufficiale è stato distribuito nel corso della giornata ai presenti e in cui si legge:

“… la crisi economica e finanziaria ha messo in discussione la convinzione miope che un’unione monetaria potesse rimanere solo tale, senza evolversi verso qualcosa di più stretto, più vincolante dove la sovranità nazionale sulla politica economica fa posto alla decisione economica. INTERRUZIONE N. 1 Occorre che i governi dei paesi membri dell’euro definiscano in modo congiunto ed irreversibile [grande enfasi su questa parola da parte di Draghi nel video, NdR] la loro visione di quale sarà la costruzione politica ed economica che sorregge la moneta unica e quali debbano essere le condizioni che vanno soddisfatte perché si possa insieme arrivare a tale meta. Questa è la risposta più efficace alla domanda che si leva da ogni parte: “cosa sarà dell’euro tra 10 anni“? INTERRUZIONE N. 2″

Questo il testo ufficiale di Draghi. Avete visto due interruzioni. Eccole.

La prima: “Tenete presente che molti avevavno rilevato questo …il Presidente Ciampi aveva parlato di zoppia, … sin dalla firma del Trattato di Maastricht, ma i tempi erano diversi, le cose andavano meglio, e quindi quegli anni, in cui effettivamente si potevano fare molte cose in più, sia dal punto di vista interno sia dal punto di vista internazionale, son passati senza che si facesse molto. Quindi occorre che la sovranità nazionale sulla politica economica faccia ora posto alla decisione comunitaria“.

La seconda: “E questa è essenzialmente una decisione di carattere politico. Bisognerebbe in un certo senso tornare indietro ed applicare lo stesso metodo che fu applicato con la costruzione dell’Unione monetaria: nel 1988 uscì il primo rapporto, si delineava una strada, delle date, e delle condizioni che andavano soddisfatte. Questo dette ai mercati una certezza straordinaria, per cui noi beneficiammo di tassi d’interesse immediatamente molto più bassi. Alcuni di voi ricordano quello che successe nel 1992: ci fu il referendum danese che mise in discussione l’intero tragitto verso l’Unione monetaria. Immediatamente i tassi d’interesse salirono, raddoppiarono nel corso di un’estate.”

Insomma cresce con grande velocità il consenso di alcuni personaggi ai vertici europei e nelle pagine dei giornali per un passaggio a una forma di “Stati Uniti di Europa” basata sulla ulteriore cessione di sovranità di politica economica da parte dei singoli stati. Basta leggersi Pisani-Ferry,  membro del Consiglio di analisi economica del Primo ministro francese ieri sul Sole 24 Ore che con strabiliante somiglianza con il “fuori onda” di Draghi ricorda come: “In quel periodo  [fine anni 80, NdR] i leader politici, soprattutto il cancelliere tedesco Helmut Kohl e il presidente francese François Mitterrand e il suo successore Jacques Chirac, affrontarono il mare con una nave leggera. Sul fronte economico, trovarono un accordo solo su un’Unione economica e monetaria ridotta all’osso, costruita intorno alla rettitudine monetaria e a una promessa inapplicabile di disciplina fiscale. Sul fronte politico, non trovarono alcun accordo, così che la creazione di un governo europeo morì sul nascere…. Saranno d’accordo nel mettere in comune le entrate fiscali in modo tale che le istituzioni a livello Ue possano verosimilmente farsi carico della stabilità finanziaria? Queste domande sono vitali per il futuro della moneta unica europea. Per quanto contrariati, i leader europei devono rassegnarsi all’idea di dare delle risposte, e senza troppo indugi. L’ironia storica è che un ambiente di crisi sta spingendo gli europei a fare delle scelte che non avrebbero neanche contemplato in tempi più tranquilli. La crisi del debito greco li ha indotti a creare un meccanismo di assistenza. La crisi spagnola potrebbe spingerli a creare un’unione bancaria. E la minaccia dell’uscita della Grecia dall’euro potrebbe indurli a decidere quanto siano disposti ad abbracciare un’unione fiscale radicale. Per molti, i recenti eventi segnano l’inizio della fine per l’ardita creazione degli architetti dell’euro. A seconda di come gli europei risponderanno a queste domande, le crisi odierne potrebbero essere ricordate un giorno come la fine dell’inizio.”

Basta leggersi il tracciato che indica, però in questo caso scetticamente, Martin Wolf dalle colonne del Financial Times quando ricorda che gli Stati Uniti di America dopo la guerra d’Indipendenza, e più precisamente su ordine del suo primo Ministro del Tesoro, il padre fondatore Alexander Hamilton, emisero debito federale, sostituendolo al debito degli Stati, scelta da cui emerse “il moderno stato federale, con vincoli sui bilanci dei singoli stati, una banca centrale e un bilancio federale per stabilizzare l’economia”.

Ma, aggiunge Wolf, emerse lentamente, non rapidamente, con, aggiungo io, un’altra guerra interna di mezzo per avvicinare le diverse culture del Paese ed unificarlo. Lo Stato centrale di fatto emerse fortemente con Roosevelt e così la preponderanza del debito federale su quello statale. Basta guardarsi i dati del debito locale (rosso), statale (blu) e federale (verde) in percentuale del PIL nel XX° secolo per capirlo:

Nella prima metà della vita degli Stati Uniti la Banca Centrale non c’era, il bilancio federale era minimo, ai problemi di finanza pubblica degli Stati si veniva incontro con il default a carico dei mercati o alla rinegoziazine di esso quando possibile. Cosa che non abbiamo fatto con la Grecia, ahimé, stato piccolo e poco produttivo come un qualunque Tennessee ma che gli Stati Uniti mai e poi mai avrebbero lasciato andare via in caso di crisi.

Certo il mondo globalizzato e le sue tecnologie, come fa presente Bauman, hanno accelerato la dimensione dei poteri privati senza vedere nascere una pari crescita del potere politico per tenerli a freno quando necessario. Sarebbe dunque giusto accelerare, come lui suggerisce, la crescita della politica per combattere le distorsioni degli interessi particolari globali a scapito di quelli collettivi. Con uno Stato più globale.

Vero.

Ma ciò vuol dire dunque passare agli Stati Uniti d’Europa con un processo irreversibile e segnato da rigide tappe come quelle suggerite da Draghi?

Siamo certi che quello che viene proposto da alcuni individui sarà governato dalla politica? Siamo sicuri che il vino rosso buono del processo democratico, ben invecchiato nelle piccole botti adeguatamente stagionate della storia, come è avvenuto probabilmente nei limiti del possibile negli Stati Uniti nel corso di più di 2 secoli, possa dare gli stessi risultati col legno fresco delle grandi botti europee delle sue fragili e nuove istituzioni indipendenti?

Com ha detto in un articolo recente Harold James, “gli europei oggi si sono legati all’idea pratica di Hamilton, che un debito comune possa portare a minor costo del credito, senza avere lavorato a risolvere la questione delle istituzioni politiche né delle virtù pubbliche comuni, che Hamilton riteneva fossero cruciali” per una Unione che potesse sopravvivere con successo.

L’esempio della supervisione bancaria, da molti ormai continuamente sospinto verso l’accentramento presso la BCE, indica un percorso diverso, dove si creano centri di potere indipendenti con poche garanzie di controllo responsabile. Il parlamento europeo, per dirne una, appare dotato di deboli poteri nel sorvegliare le attuali autorità di supervisione bancaria create pochi mesi fa e già secondo alcuni da chiudere in favore di un ulteriore accentramento.

La BCE non è la Fed. La Fed, che la si critichi o meno, risponde con forza alla politica Usa, anche se è vero che molto spesso la seconda è troppo obbediente alla prima. Ma un bilanciamento esiste. Ecco io temo che il percorso tracciato da Draghi sia immaturo e ci destini o al fallimento delle istituzioni europee o al prevaricamento da parte di queste di essenziali bastioni democratici della convivenza civile.

Che non si butti con l’acqua sporca il bambino. Prima di chiederci cosa sarà dell’euro tra 10 anni, chiediamoci cosa sarà delle persone che vivono nell’area dell’euro nei prossimi dieci anni. Se la risposta alla seconda domanda sarà intelligente, con le giuste politiche volte ad aiutare la crescita e lenire le sofferenza dei deboli, la crescente coesione europea permetterà, nei tempi giusti, il sogno europeo radicato nella democrazia e nel rispetto dei valori essenziali dell’uomo.

6 comments

  1. QUOTATIONS da Bagnai (http://www.costituzionalismo.it/articoli/406/) su risposte preventivamente già fornite ai problemi (ri)proposti ora (per passaggi essenziali, aggiuntivi a quello per cui non si crea un’OCA se non per…limitare il danno):
    1)…”Il requisito che i tassi di inflazione dei partecipanti siano uniformi è giustificato e razionale…, ma la regola adottata ha un problema: è asimmetrica. Sposando il principio semplicistico che “l’unica inflazione buona è quella morta”, Maastricht attribuisce la patente di “primi della classe” ai paesi con l’inflazione più bassa. Ora, mentre la teoria economica non fornisce un credibile sostegno all’idea che chi ha l’inflazione più bassa sia per forza “migliore”, d’altra parte è certo che in una unione monetaria chi tiene la propria inflazione sistematicamente al di sotto di quelle degli altri sta praticando una svalutazione reale competitiva. …la razionalità economica vorrebbe che, in un contesto nel quale una banca centrale indipendente fissa un obiettivo di inflazione, venisse “punito” non solo chi se ne discosta al rialzo, ma anche, simmetricamente, chi se ne discosta al ribasso, perché sta attuando una politica beggar-thy-neighbour.

    Ed è proprio questo l’obiettivo della Germania fin dal secondo dopoguerra, per ammissione esplicita degli stessi responsabili della sua politica economica.
    Un’osservazione tanto impeccabile dal punto di vista dottrinale (visto che ormai ovunque si concorda sul fatto che la crisi dell’eurozona è causata dagli sbilanci esterni, non da quelli pubblici, quanto naïve dal punto di vista politico…
    2)Perché il Trattato di Maastricht, all’art. 109j(1), già considera l’indebitamento estero nel monitoraggio del processo di convergenza. E siccome il problema era noto, il fatto che non sia stata definita una regola quantitativa, come quella del 3% per il deficit pubblico, significa una sola cosa: che non la si voleva (e non la si vuole) definire. Questo per almeno due motivi: primo, perché se “calmierare” il deficit pubblico significa limitare l’intervento dello Stato nell’economia (aprioristicamente considerato dannoso), “calmierare” il deficit esterno significherebbe intralciare i movimenti di capitale privati (che l’omodossia vede come sempre e comunque forieri di buona crescita); secondo, perché nell’elaborazione delle regole di Maastricht ha predominato politicamente il blocco dei paesi dell’area marco, guidati dalla Germania. E chi si aspetta di essere in surplus ovviamente non ha interesse a contenere i deficit altrui! As simple as that.

    3) Sono ormai molti a percepire come esito inevitabile la disgregazione dell’euro. I costi di questo evento, enfatizzati dai media, atterriscono l’opinione pubblica, e così anche chi è convinto dell’insostenibilità dell’euro si chiede se non ci sia qualcosa da fare per salvare la baracca. Proposte in tal senso abbondano. Temo le si possa classificare in tre categorie: quelle assurde, quelle inefficaci, e quelle irrealizzabili…

    …Sono improponibili (per i motivi “politici sub 1) e 2) n.d.r.), anche se non insensate teoricamente, altre proposte di “più Europa”, quelle che passano attraverso l’idea di una maggiore “unione” fiscale, vuoi nel senso di “integrazione” (dotare il bilancio della Commissione di più risorse e di meccanismi per ridistribuirle in senso anticiclico, come richiesto fin da Kenen, op. cit.), vuoi nel senso di “coordinamento” (mantenere bilanci separati, ma creare meccanismi che inducano chi si trova in posizione di surplus esterno a stimolare la crescita con la propria domanda interna).
    In effetti l’integrazione fiscale è uno dei motivi di tenuta dell’unione monetaria statunitense, come notano fra gli altri Tamim Bayoumi e Paul Masson, o Xavier Sala-i-Martin e Jeffrey Sachs. Dai loro studi risulta che il bilancio federale compensa in media per più di un terzo gli shock avversi ai redditi individuali (attraverso riduzioni di imposte o aumenti di trasferimenti), contribuendo così a bilanciare gli squilibri regionali[59]. Meccanismi di questo tipo, che intervengano “a valle” degli squilibri, sono politicamente improponibili in Europa, dove il dibattito politico è condizionato dall’atteggiamento falsamente moralistico dei paesi del centro.
    Per la classe politica di questi paesi è ormai impossibile richiedere all’elettorato atteggiamenti cooperativi con chi finora è stato additato, per motivi di tattica politica interna, come origine della crisi. Nessun politico tedesco potrà mai fare in queste condizioni “la cosa giusta” (ovvero spendere di più, trasformando la Germania in una locomotiva che tira nella direzione giusta, anche se questo migliorerebbe la posizione del suo stesso elettorato: se ci provasse, si vedrebbe immediatamente fare lo sgambetto dal politico della parte opposta, che avrebbe buon gioco a deplorare la prodigalità dell’avversario. E destra e sinistra in questo gioco si equivalgono…”

    Insomma, falso moralismo e cattiva politica (imperialista-commerciale) precostituita a tavolino rendono impossibile raddrizzare la nave che ha praticamente “disalberato”…

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  2. Martin Feldstein Da: “EMU and international conflict”, Foreign Affairs, vol. 76, n. 6, novembre/dicembre 1997:

    Pag. 61: “Instead of increasing intra-European harmony and global peace, the shift to EMU and the political integration that would follow it would be more likely to lead to increased conflicts within Europe” (invece di favorire l’armonia intra-Europea e la pace globale, è molto più probabile che il passaggio all’unione monetaria e l’integrazione politica che ne conseguirà conduca a un aumento dei conflitti all’interno dell’Europa).

    Pag. 62 “Although 50 years of European peace since the end of World War II may augur well for the future, it must be remembered that there were also more than 50 year of peace between the Congress of Vienna and the Franco-Prussian War. Moreover, contrary to the hopes and assumptions of Monnet and other advocates of European integration, the devastating American Civil War shows that a formal political union is no guarantee against an intra-European war”. (anche se i 50 anni di pace dalla fine della seconda guerra mondiale fanno ben sperare, occorre ricordare che ci furono più di 50 anni di pace fra il congresso di Vienna e la guerra franco-prussiana. Inoltre, contrariamente alle speranze e alle supposizioni di Monnet e degli altri fautori dell’integrazione europea, la devastante guerra di secessione americana ci ricorda che un’unione politica formale non costituisce di per sé una garanzia contro una guerra intra-europea).

    Pag. 69 “What is clear is that a French aspiration for equality and a German expectation of hegemony are not consistent” (Quel che è chiaro è che l’aspirazione francese all’uguaglianza non è compatibile con le aspettative tedesche di egemonia).

    Pag. 72 “A critical feature of the EU in general and EMU in particular is that there is no legitimate way for a member to withdraw… The American experience with the secession of the South may contain some lessons about the danger of a treaty or constitution that has no exits.” (un aspetto cruciale dell’Unione Europea in generale e di quella monetaria in particolare è che i paesi membri non hanno un modo legittimo di ritirarsi… L’esperienza americana, con la secessione del Sud, potrebbe offrire qualche lezione sui pericoli di un trattato o di una costituzione che non offre vie di uscita).

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    • Sì, siamo d’accordo, ma sono punti in negativo. Costruiamo vuol dire trovare la soluzione per andare avanti in questo incredibile e meraviglioso processo di pacificazione ed integrazione culturale che gli americani in parte temono in parte apprezzano ma che certamente non ci aiuteranno a realizzare. I passi fatti in avanti, basta guardare la mobilità studentesca tra paesi, sono stati giganteschi.

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  3. Si tratta di un problema di negoziazione.
    Ogni negoziato presuppone un obiettivo incrementale di convenienza distribuito, possibilmente in modo paritario (tendenziale), tra le parti.
    Esiste oggi questa omogeneità di interessi o quindi di obiettivi tra i vari grandi paesi europei?
    La risposta per cui ci “dovrebbe” essere, purtroppo, fa parte di una visione ideale non solo tale (cioè non riscontrata nelle classi politiche) ma anche unilaterale, cioè non simmetrica nel sentire delle stesse basi nazionali nei vari paesi. E poi l’accento esasperato su vincoli monetari e di cambio ignorando gli equilibri commerciali e spostando sul lavoro le risposte di correzione degli squilibri è una impostazione che precede l’euro, dura a morire.
    20 anni di propaganda ufficiale (divergente dalle ragioni economiche basate su una deliberata asimmetria di assetto e effetti) sul “significato” di maastricht, con proiezioni nettamente diverse all’interno dei vari paesi, ci porta oggi a un punto morto, per quanto possa non piacerci.

    D’altra parte, le ragioni “in positivo” non passano necessariamente per la creazione di una moneta unica, anzi, quanto piuttosto per una rigenerazione dello spirito cooperativo su progetti specifici anche di grande respiro (politiche di investimenti, di difesa comune, persino di politica estera, e ovviamente di forte e inequivocabile avvicinamento della legislazione del lavoro\previdenziale e tributaria). Magari gestita da “nuove” istituzioni, democratiche in modo sostanziale (cioè rappresentative e con la sicura informazione e coinvolgimento dei popoli aderenti, perchè sia chiara la consapevolezza dell’impegno reciproco).
    Personalmente vorrei sbagliarmi ma non vedo come la Germania, a un passo dall’affermazione della sua egemonia (in un modo o nell’altro, anche in caso di euro-break e salvo shock del sistema bancario legati al coinvolgimento pesante nel possesso di OTC di dubbio “nozionale”), possa accettare di pagare dei costi non solo immediati ma anche orientati su una profonda revisione delle proprie politiche su domanda interna e mercantilismo in Europa.
    Ma chissà, non si può escludere un (ora remoto) risorgere del buon senso…

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  4. Se poi concomitassero segni che la aumentata mobilità studentesca si stia traducendo in un correlato aumento della mobilità del lavoro all’interno degli stati del’unione monetaria se ne potrebbero trarre auspici anche migliori. Approfitto sempre della sua esperienza prof per domandarle se ci siano lavori macroeconomici recenti in cui ci si sia occupati di questo argomento. Grazie.

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