Bellissima occasione di scambio per il convegno “Fede teologale e pensieri umani”, organizzato per l’Apertura delle Settimane Culturali 2012-2013 dal Vicariato di Roma, Ufficio Pastorale Universitaria. Un fisico, un giornalista, un economista (il sottoscritto) tutti timorosi a confrontarsi con temi che non sono certo il loro pane quotidiano assieme ad uomini di Chiesa. Segue un breve sunto delle mie arrischiate riflessioni, stimolato dagli organizzatori a commentare il punto 35 della Caritas in veritate (che vi allego in corsivo qui sotto, con in grassetto i temi di cui ho parlato), in tempi di crisi economica. Alcune delle riflessioni sottostanti mi sono state suggerite dal libro What Money Can’t Buy di Michael Sandel.
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35. Il mercato, se c’è fiducia reciproca e generalizzata, è l’istituzione economica che permette l’incontro tra le persone, in quanto operatori economici che utilizzano il contratto come regola dei loro rapporti e che scambiano beni e servizi tra loro fungibili, per soddisfare i loro bisogni e desideri.
Il mercato è soggetto ai principi della cosiddetta giustizia commutativa, che regola appunto i rapporti del dare e del ricevere tra soggetti paritetici. Ma la dottrina sociale della Chiesa non ha mai smesso di porre in evidenza l’importanza della giustizia distributiva e della giustizia sociale per la stessa economia di mercato, non solo perché inserita nelle maglie di un contesto sociale e politico più vasto, ma anche per la trama delle relazioni in cui si realizza.
Infatti il mercato, lasciato al solo principio dell’equivalenza di valore dei beni scambiati, non riesce a produrre quella coesione sociale di cui pure ha bisogno per ben funzionare. Senza forme interne di solidarietà e di fiducia reciproca, il mercato non può pienamente espletare la propria funzione economica. Ed oggi è questa fiducia che è venuta a mancare, e la perdita della fiducia è una perdita grave.
È interesse del mercato promuovere emancipazione, ma per farlo veramente non può contare solo su se stesso, perché non è in grado di produrre da sé ciò che va oltre le sue possibilità. Esso deve attingere energie morali da altri soggetti, che sono capaci di generarle.
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Giustizia distributiva, mercato e crisi
Se il mercato si estende a tutto, cosa avviene alla giustizia distributiva? Non vorrei qui affrontare una questione spesso toccata e che in questo contesto ritengo banale: l’analisi del mercato dello yacht e del condannare il fatto che esso sia accessibile solo a chi ha più denaro. Perché lo yacht vale poco nella vita di una persona.
Mi interessa qui affrontare cosa avviene se il mercato si estende ad altre sfere che comportano un valore alto dello scambio: cosa avviene cioè se il mercato governa lo scambio di influenza politica (corruzione), l’accesso alla salute, l’accesso alle scuole di qualità (… di élite)?
Succede che una medesima distribuzione del reddito diventa capace di essere compatibile con diversi livelli di giustizia distributiva, a seconda di quanto il mercato aggredisca appunto queste altre sfere della vita sociale così importanti. E succede che una peggiore distribuzione del reddito, più probabile in tempi di crisi economica, tanto più è ampia l’area “impropria” del mercato, tanto più è grave nei suoi impatti sul benessere degli individui che appartengono alle fasce più povere della popolazione.
Combattere per la giustizia distributiva forse richiede dunque di più o di meglio che meri trasferimenti di reddito: richiede delimitare i confini del mercato là dove questo non ha bisogno di espandersi.
Mercato, coesione sociale, crisi
Sandel afferma che a volte mettere un prezzo, introdurre un mercato là dove non esiste, corrompe la natura del bene prodotto e scambiato. “I mercati lasciano una traccia. Implicitamente mercificano.”
Lo sappiamo bene, visto che a volte abbiamo chiuso dei mercati perché mercificano: il divieto della schiavitù è solo l’esempio più ovvio, oggigiorno rileva forse maggiormente quello del divieto del lavoro minorile. Immagino che questi divieti siano stati imposti in nome di un qualche tipo di coesione sociale attorno a dei valori condivisi che altrimenti sarebbe stata minacciata.
Ma cosa avviene se apriamo dei mercati a scambi che non si prestano ad essere mercificati facilmente? Si corrompe il bene che vogliamo produrre. Quanto oramai nelle iniziative culturali o scientifiche universitarie ricorriamo a finanziamenti esterni aziendali? E che impatto hanno sulla conoscenza, il prodotto cioè che deve generare l’università, i conflitti d’interesse che noi ricercatori sentiamo chiaramente ogni volta che ricerchiamo, sì, ma finanziati da un’azienda? Negli Usa alcune scuole cominciano a ricevere impianti video gratis in cambio dell’obbligo per i più giovani di assistere a programmi educativi che contengono messaggi pubblicitari: che cultura assorbono i ragazzi?
Siccome la crisi economica restringe gli spazi per il finanziamento di scuole ed università, molte di queste cercano appunto di ricavarsi spazi con l’aiuto del settore privato. Ma così facendo rischiano di compromettere il valore del bene che sono sensate generare.
Quando negli Usa dalla comprensibile assicurazione sulla vita degli amministratori delegati, necessaria all’azienda per cautelarsi da un evento particolarmente unico e dannoso, si è creato il mercato dell’assicurazione sulla vita dei dipendenti, non si è forse ridotto il valore della vita umana dei propri dipendenti e l’incentivo a tutelarne la salute sul posto di lavoro?
Insomma, usando le parole di Sandel, il rischio, che non dobbiamo dimenticare, è quello di transitare dall’ “avere un’economia di mercato” all’”essere una società di mercato”.
Giustizia commutativa, mercato e crisi
La giustizia commutativa regola i rapporti del dare e del ricevere tra soggetti paritetici. Essa è fondamentalmente correttiva: mira pareggiare i vantaggi e gli svantaggi tra i due contraenti quando questi soggetti non risultano partire da situazioni paritetiche.
La giustizia commutativa presiede ai contratti. I quali possono essere volontari o involontari. Cosa sono i contratti involontari? Quelli fraudolenti, certo, come il furto, il tradimento, la falsa testimonianza, le percosse, l’uccisione, la rapina, l’ingiuria, ecc.
Ma siamo sicuri che i contratti “involontari” si fermino a questi? Un giovane bambino indiano povero che entra volontariamente in un contratto con una ricca famiglia di un paese benestante per lo scambio di un rene in cambio di denaro, è veramente in una situazione paritetica?
Mentre mi pare ovvio dire che in molti casi la giustizia commutativa induce giustizia distributiva dando maggiore potere contrattuale alle parti deboli, credo che l’esempio del rene ci mostri come anche una maggiore giustizia distributiva, che libera il giovane indiano dall’indigenza, induce giustizia commutativa evitando che sia volontariamente costretto a cedere il suo rene per … sopravvivere.
E non c’è dubbio alcuno che la crisi esaspera i problemi di ingiustizia commutativa. Lo fa mettendo maggiormente in difficoltà le parti solitamente deboli nei contratti: giovani e piccole imprese.
Ecco perché quando la Caritas in veritate suggerisce che il mercato debba attingere ad altre energie morali per sopravvivere, io continuo a chiedermi da tempo se lo Stato possa essere uno dei fornitori principali di questa energia, se lo Stato rientra tra quegli “altri soggetti” che essa indica.
E nel rispondere mi pare di potere dire che lo Stato debba sapere generare giustizia distributiva e commutativa nel senso sopra detto se vuole dimostrarsi all’altezza della sfida essenziale di rafforzare il mercato, dandogli vita vera.
Per fare ciò lo Stato non deve sprecare. E dunque deve basarsi sulla competenza e la conoscenza. Ma non basta, deve anche lottare contro la sua stessa corruzione, diversa da quella più sottile ma altrettanto e forse più pervasiva dei mercati, descritta sopra. Deve basare la propria azione su dei valori fondanti della comunità che governa.
Perché uno Stato corrotto corrompe i mercati che deve regolare. Lo so io che ho scritto un libro sui derivati usati impropriamente dai Governi, dove indicavo come uno dei rischi maggiore la dissoluzione morale che ne sarebbe conseguita per i mercati privati dei derivati nel momento in cui lo stesso regolatore pubblico, per fini propri legati a logiche di corruzione o frode, mostrava di non essere interessato a tutelare la correttezza dello scambio quando lui stesso vi era coinvolto (Grecia e Goldman Sachs sono solo uno dei tanti esempi).
Se oggi la logica del mercato esteso a tutto ha un suo clan di tifosi così ampio è anche perché non abbiamo saputo intingere a sufficienza nella competenza e nel rispetto dei valori storici fondanti l’azione del governo della cosa pubblica.
Il che indica al contempo la retta via: maggiore competenza e rettitudine pubblica giustifica il retrocedere dei mercati all’interno della nicchia dove svolgono il loro ruolo fondamentale, quello di supporto alla crescita non drogata dell’economia di mercato e alla conseguente espansione delle opportunità nel rispetto della dignità degli uomini.
Se la crisi economica pare dunque farci correre il rischio di divenire ancor più società di mercato, la presenza (ma solo se) virtuosa dello Stato nell’economia in tempi di crisi può ridare linfa vitale all’economia di mercato, e non solo in un senso keynesiano.
17/11/2012 @ 14:33
per chi ha Fede i comportamenti, privati o pubblici che siano, devono sempre essere virtuosi ma … forse questa è una partita che ognuno deve giocare con se stesso, dando la propria testimonianza nelle piccole cose ordinarie di ogni giorno, senza curarsi di quello che fanno gli altri.