Con Simone Borra e Annalisa Castelli, uscito il 4 maggio su Avvenire
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Il dibattito su giovani e Università aumenta di intensità, stimolato dalle notizie su studenti che, sempre più frequentemente, approfittano di occasioni ufficiali per denunciare percorsi formativi divenuti ormai eccessivamente competitivi, stressanti, distanti, troppo e malamente meritocratici, certamente poco inclusivi. In esso si contrappongono, spesso quasi come compartimenti stagni, due filoni di pensiero: da un lato quello di chi ascolta e comprende quel “grido” di dolore; dall’altro la sorpresa di chi invece si stupisce di queste fragilità dei nostri ragazzi, trovandole stucchevoli, lamentose o fuori luogo.
Per capire cosa stia avvenendo, la nostra prima domanda è: perché ora? E’ evidente che negli ultimi decenni l’Università italiana si sia aperta e sia divenuta meno elitaria e più accessibile pur rimanendo, tra quelle dei paesi europei, una con il minor numero di giovani laureati. E, nel farlo, ha alimentato le aspettative, nei nuovi immatricolati e nelle loro famiglie, di avere finalmente accesso ad un oliato ascensore sociale, grazie al quale aspirare a posizioni migliori nel lavoro e nella vita.
In quel mondo del lavoro, tuttavia, la ventennale stagnazione italiana ha trasformato il raggiungimento della laurea, da megafono di un funzionamento dell’ascensore sociale, in un ingresso in un imbuto rovesciato, nel quale è complesso transitare per ottenere il meritato riconoscimento da parte del mercato del lavoro. E la domanda chiave è: chi ce la farà? Chi vincerà la gara? Perché purtroppo, quando i premi a disposizione non sono disponibili per tutti i partecipanti, proprio di gara si tratta.
Condizione necessaria per rispondere a questa domanda è innanzitutto capire se l’Università permetta alla competizione di svolgersi a parità di condizioni. E la risposta è, purtroppo, un fragoroso no. I curricula dei giovani meno abbienti partono indietro rispetto a quelli dei loro colleghi benestanti. E restano indietro: le borse di studio, quando ci sono, sono basse e arrivano in ritardo; i periodi all’estero, nonostante l’opportunità dell’Erasmus, restano alla portata di pochi, con conseguenti lacune nella conoscenza delle lingue già in partenza, in media, inferiori. Per non parlare delle abilità sociali, né create e né accresciute in una Università poco preoccupata e attrezzata per fornirle a chi non le ha già per condizioni favorevoli alla partenza.
Una gara, dunque, oggettivamente e drammaticamente impari nella quale, chi è svantaggiato, reagisce in due possibili modi: “defezione o protesta” per dirla con Albert Hirschman. La defezione non è più soltanto semplice abbandono, è anche e sempre di più scoraggiamento, apatia, depressione, sfiducia in sé stessi e sconforto, testimoniati dalla crescente richiesta da parte dei giovani, tuttora ampiamente insoddisfatta, di strutture di sostegno anche psicologico all’interno degli Atenei. La protesta si manifesta invece, appassionata e arrabbiata, nei sempre più numerosi discorsi dei rappresentanti degli studenti contro quella meritocrazia che è divenuta, da meritato premio per lo sforzo profuso, uno strumento di discriminazione ulteriore a favore dei pochi che hanno e che possono.
La risposta a questo stato di cose, crescentemente drammatico, non può che essere duplice. Da un lato, servono scelte di politica economica volte a rilanciare l’economia italiana, permettendo al mercato del lavoro di allargare l’imbuto così da porre fine al conflitto intragenerazionale. Dall’altro è necessario che, oltre ad orientare meglio la scuola secondaria, l’Università si dia finalmente nuove sembianze: rimettendo al centro la didattica e lo studente, la sua crescita personale non solo in termini di preparazione accademica, ma anche psicologica e di abilità sociali, creando un ambiente in cui i valori della cooperazione e del lavoro di squadra siano costantemente esaltati, e dove, anche per il tramite di borse di studio mirate e puntuali, si riesca a laureare ogni studente negli anni di corso previsti, interrompendo l’effetto “parcheggio sociale” dell’Università, accompagnando i ragazzi al coronamento del percorso, la laurea, e all’accesso a quel mercato del lavoro che sarà tornato a essere luogo di accoglienza e vero riconoscimento del loro merito, il merito di ognuno di loro.
Non è più tempo di attendere, ma di reagire e di mettere tutte le nostre energie e risorse al servizio della causa dei nostri giovani.
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