DEF 2023: non si esce dalle sabbie mobili

Oggi su Il Sole 24 Ore

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         Proprio nel momento in cui uscivano, all’interno del Documento di Economia e Finanza, le stime riviste al rialzo della crescita economica tendenziale per il 2023 (da +0,6% a +0,9%), il Fondo Monetario Internazionale pubblicava le sue previsioni per le maggiori economie del mondo, fissando invece al +0,7% il valore dell’aumento di PIL italiano per l’anno in corso.

         L’ottimismo è sempre stato una caratteristica dei documenti di programmazione pluriennale dei Governi, il più delle volte smentito dai fatti successivi. L’incertezza globale è tuttavia tale che non possiamo scommettere oggi su chi, a fine anno, avrà avuto ragione. Sta di fatto che tale rialzo ha due ordini di conseguenze, legate al conseguente miglioramento del deficit tendenziale. Il primo, è quello di permettere al Governo Meloni di permettersi un mini spazio fiscale di 0,15% di PIL, circa 3 miliardi di euro, per finanziare un taglio dei contributi sociali a carico dei lavoratori dipendenti con redditi medio-bassi. Il che ovviamente non modifica il carattere restrittivo della manovra 2023, che porta il deficit (non tenendo conto degli aggiustamenti contabili richiesti da Eurostat sull’ecobonus) sempre dal 5,6% del 2022 al 4,5% del PIL: in assenza degli stanziamenti per il cuneo avremmo semplicemente avuto una manovra ancora più restrittiva per l’economia. Il secondo è quello comunque di non modificare quanto già promesso all’Europa in sede autunnale con la Nota di aggiornamento del DEF 2022, di un deficit su PIL appunto pari al 4,5%.

         E’ interessante notare come il Ministro dell’economia abbia lodato questo provvedimento per la sua capacità di sostenere il potere d’acquisto delle famiglie e contribuire alla moderazione della crescita salariale. Effettivamente il potere d’acquisto delle famiglie, ha comunicato pochi giorni fa l’Istat, è stato così basso solo durante il primo trimestre Covid e durante l’austerità del Governo Monti. La ragione è molto semplice: in Italia la moderazione salariale ha assunto caratteristiche patologiche sia nella pubblica amministrazione, dove la spesa per personale rimane costante in questo biennio in termini monetari a fronte di un’inflazione complessiva che sfiorerà il 15%, sia nel settore privato dove – al contrario di altri paesi europei – i sindacati sono rimasti silenti, non pretendendo neanche una parziale indicizzazione dei salari all’inflazione, forse timorosi della loro debolezza negoziale dovuta al depresso contesto nazionale. Due fenomeni che sono indicativi delle due malattie che affliggono il nostro Paese, l’austerità incessante e il pessimismo imperante, bloccandolo in un circolo vizioso della stagnazione da cui non riusciamo più a uscire dall’inizio del secolo, e di cui basterà qui ricordare le ultime performance: tra il 2020 ed il 2023 (stime FMI), quando il mondo è atteso crescere dell’8,6% e gli Stati Uniti del 6%, l’area dell’euro sarà a un modesto 3,1% e l’Italia al … 2%.

         L’austerità è effettivamente incessante e tale da rendere indistinguibile un Governo italiano dall’altro. Prova ne è il percorso di rientro del deficit pubblico deciso da quello attuale, identico in tutto e per tutto a quello di tutti i Governi che si sono succeduti da quando fu approvato nel 2011 quel Fiscal Compact che non ha mai cessato di esistere ed incidere. E ciò anche durante il periodo del PNRR, visto che il nostro rientro di deficit ne è condizione integrante all’art. 10, pena l’interruzione dei fondi europei del Piano. Il valore del deficit da perseguire per il 2025, il 3% del deficit-PIL lo dimostra chiaramente, addirittura sospingendosi sotto, al 2,5%, per il 2026. In termini di avanzo primario, vista la crescita per la spesa per interessi, l’aumento è ancora più drammatico, del 2,8%, 60 miliardi di euro di maggiori entrate fiscali e di minori spese pubbliche in 4 anni che non possono che contribuire a mettere ulteriormente in ginocchio il Paese.

         Sono numeri, quelli dichiarati a tutto il Paese per il tramite del DEF, che contribuiscono al pessimismo imperante a riguardo del nostro futuro, frenando progetti di investimento e di impresa che non vedranno la nascita, perlomeno nella nostra penisola. Come si può pensare che un imprenditore guardi con fiducia all’Italia se sa che nei prossimi anni c’è la concreta possibilità che su radici così fragili si venga a instaurare una politica fiscale così recessiva? E ciò anche se poi effettivamente la manovra di riduzione non dovesse avvenire, perché oggi un imprenditore per investire deve nutrirsi di ottimismo concreto e di certezze!

         Si dice che non vi siano risorse. Non è vero. Esistono le risorse che possono provenire da una sana spending review che parta innanzitutto da una riforma della governance delle nostre stazioni appaltanti per finalmente spendere meglio quando la P.A.  progetta e/o compra. E’ una riforma che non si fa con un nuovo codice degli appalti ma con una rivoluzione organizzativa volta a spendere per appropriarsi, dal settore privato e dalle università, di capitale umano con le migliori competenze per gli acquisti pubblici. E’ una riforma che costa ma che avrà ritorni immensi in termini di cancellazione degli sprechi, molto più che ripagandosi. E’ una riforma che consentirà di spendere (e spendere bene) i soldi del PNRR e soprattutto di ottenere dall’Europa quella fiducia che ci consentirà di negoziare percorsi di politica fiscale meno restrittivi e dunque più capaci di ridare forza al Paese, nel contempo abbattendo il rapporto Debito-PIL per il tramite della crescita.

Opera: “Umori”. Copyright opere Angela Maria Piga, all rights reserved.

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