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L’elicottero della rivoluzione

“Viewed in abstract, the Federal Reserve System had the power to abort inflation … It did not do so because the Federal Reserve was itself caught up in the philosophical and political currents that were transforming American life and culture … It is illusory to expect central banks to put an end to an inflation …. that is continually driven by political forces… (and that) will not be vanquished … until new currents of thought create a political environment in which the difficult adjustments required to end inflation can be undertaken”. 

Il passato Governatore della Fed statunitense Arthur Burns, discorso del 1979.

“The Magyar Nemzeti Bank (MNB) launched several programmes in 2014 not related to monetary policy, including a real estate investment programme, a programme to promote financial literacy and a programme involving purchases of Hungarian artworks and cultural property. The ECB assessed these operations from the perspective of their compliance with the prohibition of monetary financing for the first time as part of its 2014 annual monitoring exercise, as mentioned in the 2014 ECB Annual Report. This assessment concluded that, in view of their number, scope and size, the programmes could be perceived as potentially in conflict with the monetary financing prohibition, to the extent that they could be viewed as the MNB taking on government responsibilities and/or otherwise conferring financial benefits on the state. As the ECB points out in its 2015 Annual Report, its concerns were not dispelled in the course of 2015, and it will therefore continue to closely monitor the MNB’s operations, with a view to ensuring that their implementation does not conflict with the prohibition of monetary financing.

Lettera del Presidente della BCE a Mr. Csaba Molnár, MEP, sul tema della legislazione ungherese e sulla politica monetaria della Banca Centrale Ungherese, 22 aprile 2016.

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Con un pragmatismo maggiore dei suoi colleghi bocconiani, Guido Tabellini si distingue prendendo in mano il dibattito di politica economica con un qualche coraggio, chiedendo una modifica dei Trattati che permettano il finanziamento monetario della spesa, privata o pubblica che sia, per abbattere deflazione e disoccupazione in Europa. Un elicottero che voli sulla città, inondandola di banconote.

http://bit.ly/1WuJjKE

Negli stessi giorni il suo ex-collega Mario Draghi fa percepire l’oggettiva distanza delle istituzioni tecniche come la BCE dalla sua proposta. Nel rispondere ad una interrogazione di un parlamentare europeo dell’Ungheria, Draghi ricorda come la Banca Centrale dell’Ungheria si è dedicata a curiose operazioni di acquisto, simili a quelle suggerite da Tabellini: immobili, programmi di servizi di istruzione, acquisto di opere d’arte ungheresi. Condannandole.

Che direbbe Draghi del progetto dell’economista di acquistare con soldi stampati della BCE patate ed I-Pad regalando banconote ai cittadini dell’Unione?

Tabellini si dice conscio che il problema è politico, più che tecnico, e che ha a che fare con la minaccia che la sua proposta comporta per l’indipendenza della Banca Centrale Europea. E cerca di argomentare arrampicandosi un po’ sugli specchi come questa non sia a rischio: “la banca centrale resterebbe indipendente a avrebbe la responsabilità tecnica di decidere che è giunto il momento di fare ricorso a questo strumento eccezionale. E il governo avrebbe la responsabilità politica di scegliere se e come allocare le risorse a sua disposizione.”

Ma la banca centrale non è mai indipendente. La banca centrale, ricordava il Presidente della Fed Arthur Burns a sintesi del suo mandato caratterizzato dalla forte inflazione degli anni settanta, è prigioniera dei suoi tempi, e – soprattutto in regimi che aspirano alla democrazia – dipende da quello che i movimenti sociali dell’epoca pretendono da lei. Negli anni settanta il combinato disposto dei movimenti giovanili e sindacali pretese inflazione per avere più occupazione, e lo ottenne. Giusta o sbagliata che fosse questa ricetta per generare occupazione, visto che alla fine si incartò in una spirale meramente inflazionistica.

Oggi ci troviamo con una società più vecchia, dove dominano i risparmiatori e le banche, molte delle quali private: la loro domanda ai politici è di tutelarli dall’inflazione, avendo in portafoglio tanta ricchezza a reddito fisso che viene minacciata di sparire via inflazione.

E’ inutile oggi chiedere alle banche centrali ed alla politica di fare quello che si fece negli anni settanta, finanziando i disavanzi dei governi: bisogna che nasca un movimento politico che lo richieda con la stessa forza degli anni settanta. Bisogna che nasca un movimento all’interno del quale vengano rappresentati gli interessi non dei risparmiatori, ma dei giovani e di coloro che soffrono quella disoccupazione che è alimentata dalla deflazione. E che questo movimento sia così forte da soffiare un vento rivoluzionario, non populista e non xenofobo, in Europa. Tutto il resto sono chiacchiere da bar di economisti amanti dei modelli o senza un senso della storia e delle sue mutevoli sensibilità.

14 comments

  1. Giovanni Grieco

    29/04/2016 @ 12:00

    “Elicottero che lancia monete alla rinfusa ammantando la città” è la metafora di un’iniezione di moneta in modo diretto ed in quantità illimitate nel mercato.
    Non le sembra professore che così concepita, l’immissione darebbe luogo ad una spirale inflazionistica difficilmente controllabile o comunque che altererebbe equilibri in modo eccessivo e dannoso per la perdita del potere d’acquisto della moneta, divenendo arma di distruzione di massa, al contrario di uno strumento virtuoso?
    Un terreno non inflazionato è sempre il campo più fecondo per interventi di natura economica e tutela del potere d’acquisto dei soggetti economici. Certo portare l’inflazione al 2% potrebbe alimentare e sostenere una fase di espansione e di investimento, ricadendo anche sul peso del debito pubblico; ciò tuttavia sempre sotto il controllo degli Organi Competenti e con immissione attraverso i canali tradizionali. L’acquisto di “patate” in grande quantità da parte della BCE, mi sembra impropabile.
    Naturalmente la politica monetaria, strumento della politica economica, si implementa e si corregge in relazione agli obietti che si intendono perseguire nel medio e lungo periodo ed è operata dai Governi di concerto con le Banche Centrali. La BCE ha funzione di garantire la stabilità dell’euro.

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  2. Antonello S.

    29/04/2016 @ 14:36

    Articolo interessante che offre molteplici spunti di analisi, ma uno in particolare…
    Mi capita infatti di leggere alcuni saggi di influencer liberalisti che ultimamente sono passati dallo slogan “Stato cattivo” a “Banchieri centrali” cattivi, cercando maldestramente di far passare il messaggio che l’inefficacia dei vari QE dipenda esclusivamente dalla libera ed arbitraria azione di un pugno di potenti banchieri centrali come lo stesso Draghi, Abe, Yallen ecc. con l’aggravante del peccato originario di matrice keynesiana.
    Peccato che questi personaggi (i banchieri centrali) non si muovono autonomamente, ma soggiaciono
    a linee guida ben precise e vengono eletti con meccanismi perfettamente oliati da una politica totalmente controllata non da tanti piccoli e danarosi azionisti di migliaia di ulteriori banche, come affermato nel post, ma direttamente dall’influenza di pochi ma potentissimi gruppi di potere.
    Questi ultimi suggeriscono, o meglio impongono la loro “governance” ai vari governi, chiedendo di sacrificare quel poco che resta della loro sovranità in nome di ideologie e teoremi economici che stanno tornando prepotentemente alla moda e che non influenzano soltanto il fenomeno inflattivo per conservare i loro patrimoni, ma secondo me vanno molto oltre e transitano anche per il progetto di compressione salariale e riduzione del welfare per cinesizzare l’opulento continente europeo.
    Sarà forse per questo motivo che il coraggioso governo ungherese di Orban sta facendo quello vediamo, cercando di limitare il più possibile i rapporti con le più note istituzioni economico/finanziarie globaliste?

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  3. Caro Gustavo, confesso che quando ho sentito parlare di helicopter money la cosa mi ha un po’ affascinato. Posto che la politica per il momento è statica, mi piacerebbe capire meglio se consideri valido l’elicottero, in che misura e perchè. Saluti a tutti

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    • Lo ritengo utile, questo dibattito, per capire in cosa siamo incastrati, deflazione + stagnazione, figlie di carenza di domanda. Ma poi bisogna chiedersi cosa permetta alla domanda di concretarsi, all’elicottero di decollare, fosse esso stampa di carta moneta o spesa pubblica in deficit. E qui la risposta non è proporre una tecnica, ma un movimento. Politico.

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  4. L’helicopter money è di certo una delle più longeve chimere teoriche della storia economica.
    Risorge periodicamente scombussolando i consueti parametri e portando sul suo passaggio adesione e rigetto.
    L’ultima volta fu a proposito del Giappone, suggerito da Bernanke (da allora ribattezzato Helicopter Ben) e mai applicato, preferendo ricorrere alla più tradizionale leva della spesa pubblica…
    Il dibattito attuale, basato sui 3 scenari evocati in uno studio di Adair Turner per il FMI, somiglia più ad una provocazione intellettuale, (in cui ortodossi ed eterodossi giocano a farsi paura), che ad un progetto compiuto ed articolato.
    Peter Praet (che grazie a Dio non è Jurgen Stark) partecipa al gioco e la definisce uno “strumento estremo”
    come anche Tabellini che allo scenario di base (distribuzione diretta) preferisce ovviamente la monetizzazione del debito, comprato a fondo perduto dalla BCE o trasformato in obbligazioni emesse da organismi comunitari che andrebbero a finanziare gli investimenti senza nessun impatto sul debito.
    La questione è di bruciante attualità fra gli economisti italiani ma non è affatto il caso sotto altre latitudini i cui economisti, a parte l’esercizio ludico, continuano a puntare l’inettitudine dei governi di fronte alle lezioni della crisi.
    Quindi scuotiamoci dal torpore anestetizzante che una tale misura produce sulle nostre capacità intellettuali ed invece di evocare il ritorno dell’antagonismo rivoluzionario che (in ben altre condizioni storiche e politiche) il paese conobbe negli anni settanta, facciamo prova di lucidità riflettendo sugli strumenti teorici più adeguati che la scienza economica offre alla nostra intelligenza.

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    • Capisco e non convengo. Qui non è più, da tempo, questione tecnica, ma politica. Lasciamo stare gli “scienziati” economici e preoccupiamoci della storia e di cosa gli lasceremo. Per ora solo brandelli di democrazia. Mi piace che la parola rivoluzione metta paura, conferma che questa stasi stasi non è, e favorisce alcuni a sfavore di altri, come è spesso il caso la notte prima che qualcosa cambi.

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  5. Ma caro professore non mi risulta che Lei insegni Scienze Politiche ma certo ora che anche Enrico Letta è venuto a Sciences Po, non mi stupisco più di niente…
    Perché vuole lasciare il potere cognitivo agli “scienziati” della Bocconi, vuole forse trasformare Tor Vergata nella Nanterre degli anni 70?
    Crede davvero che i nostri giovani abbiano bisogno di “buoni o cattivi” maîtres à penser…che rievochino per sentito dire l’estetica della “rivoluzione”?

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    • Non si stupisca, qui siamo coerenti. 4 anni fa (si si prima di Letta) abbiamo creato Global Governance a Tor Vergata prima laurea in scienze politiche totalmente interdisciplinare, che dirigo strafelice. Perché se non crediamo al potere dell’economia per spiegare il mondo, ci muoviamo coerentemente con questa visione. E sa cosa? Siamo felici di capire molto di più.

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  6. Emilio Rossi

    01/05/2016 @ 16:27

    Caro Gustavo, condivido l’idea che si tratti di questione politica e che occorra una visione di lungo termine (che in questo contesto sarebbe rivoluzionaria a prescindere…). Come sai, ritengo che il problema della carenza di domanda sia strutturale (con l’aggravante di una serie di fattori contingenti post-crisi) e dovuta innanzitutto a (almeno) due decenni di progresso tecnologico non abbastanza “disruptive” (à la R. Gordon). La visione politica rivoluzionaria sarebbe allora quella di accettare un decennio di bassa crescita, investire massicciamente sia sulle numerose promesse di tecnologie fortemente innovative che sull’università e riprendere il cammino verso una condivisa redistribuzione tra i fattori di produzione (lavorare meno, più tecnologia) – ma è realistica oggi una visione che richiederebbe tempi lunghi, coordinamento delle politiche economiche e condivisione degli sforzi di ricerca? tu cosa hai in mente quando ti riferisci (giustamente) alla necessità di un vento rivoluzionario?

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  7. Vedo che alcuni lettori sono molto spaventati dal richiamo all’antagonismo rivoluzionario.
    La mia impressione è che il professor Piga abbia parlato del movimentismo anni ’70 senza sapere bene di cosa si trattasse nella realtà.
    Il settore sociale a cui appartiene il professore, come testimoniano i post dei suoi commentatori, erano e sono molto lontani dalle rivendicazioni dei movimenti giovanili e dei sindacati di quegli anni.
    Il fondamento di quell’attivismo era la lotta di classe e non le politiche keynesiane come sembra credere GP, ma d’altra parte le politiche keynesiane diffondendo il benessere anche nelle classi meno agiate favoriscono una presa di coscienza politica che porta inevitabilmente a maggiori rivendicazioni che mettono in questione i privilegi della “borghesia”.
    Non c’è politica keynesiana che non porti a una messa in discussione dell’ordine sociale di classe, dei rapporti di lavoro, dei criteri di redistribuzione della ricchezza.
    È questo quello che vuole?
    Parlare di investimenti pubblici senza parlare esplicitamente di queste impicazioni non ha significato.

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    • Bene, mi pare un commento molto interessante. I movimenti giovanili erano ben vicini al settore sociale a cui appartengo, la borghesia agiata. I sindacati no, anche se mi sovviene che l’unico a schierarsi in Italia in una battaglia referendaria (persa) col sindacato in questi ultimi anni per politiche keynesiane è stato il sottoscritto (mesi indimenticabili in cui ho effettivamente conosciuto da vicino per la prima volta il sindacato) e pochi altri.
      Che le politiche keynesiane “portino a una messa in discussione dell’ordine sociale di classe”, una eresia per Keynes, la dice lunga su dove siamo arrivati con le politiche liberiste in quest’ultimo decennio. Ma tant’è, in questo mondo pare così. Sì certo, c’è una forte implicazione redistributrice nelle mie battaglie per le pmi, i giovani, gli investimenti pubblici. Che sia una rivoluzione dell’ordine sociale di classe lo dice lei, ma capisco perché lo dice, sono tempi talmente bui che bisogna usare parole forti.

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      • Non mi pare di avere usato parole forti.
        Lei ha parlato di movimenti come quelli degli anni settanta e a me è sembrata un’espressione molto significativa tanto che alcuni utenti si sono addirittura preoccupati e uno ha dimostrato interesse interpretandola come “giusta necessità di un vento rivoluzionario”.
        Non credo che sia una interpretazione del tutto arbitraria se si considera che recentemente a Perugia Paolo Savona ha detto:

        “Sta a voi giovani, che non avete niente da perdere, attuare una battaglia, direi una “rivoluzione”, per la democrazia in Europa”.

        Molte persone leggono il suo blog sentendo come lei e come tutti l’incombenza di un momento che lei stesso definisce “buio” della nostra storia.
        Le sue parole possono avere diversi significati e per chi vuole darsi da fare è importante comprendere in che senso le scrive.

        Lei giustamente sottolinea che almeno una parte del movimentismo anni settanta era animato da persone del suo stesso settore sociale, la borghesia agiata. Il punto però, come lei sa molto bene, è che in quegli anni i giovani si contrapponevano con decisione ai genitori, agli anziani e all’autorità in generale.
        A quei tempi a dispetto della loro appartenenza familiare le loro motivazioni erano diversissime dal sostegno a politiche keynesiane e anzi Keynes era criticato come economista prettamente borghese.
        Si parlava di lotta di classe, non di “maggiore spesa pubblica” e immagino che lo abbia sentito dire.

        Il fatto che Keynes considerasse un’eresia la messa in discussione dell’ordine sociale è marginale, ciò che conta è che importanti settori sociali negli anni settanta ritenevano che i lavoratori stessero avanzando pretese insostenibili affermando – parlo di documenti scritti dell’epoca pubblicati da noti think tank americani – che la democrazia dovesse essere limitata.

        I “trenta gloriosi” hanno permesso – limitatamente al mondo occidentale ed evidentemente a spese dei paesi in via di sviluppo – un miglioramento delle condizioni economiche e sociali delle classi subalterne senza precedenti nella storia.
        La conseguenza è stata il ’68 e i movimenti operai degli anni settanta che per quanto Keynes e forse anche lei la considerino una eresia mettevano (disordinatamente) in questione i rapporti di lavoro, i rapporti di classe, i criteri di redistribuzione e le modalità di partecipazione alla decisione politica.

        A me e certamente ad altri lettori interessa capire con chiarezza il suo punto di vista per comprendere quale può essere la sua linea di azione o quantomeno il suo scopo concreto.

        Le chiedo quindi: lei crede che sia effettivamente necessario ripensare i criteri di redistribuzione della ricchezza tenendo conto che questo andrà inevitabilmente a ridurre la capacità di mantenere la rendita di posizione delle classi più agiate?
        Un movimento o un partito si deve limitare a sottoporre delle richieste cercando una mediazione o deve imporsi come soggetto politico in opposizione alle oligarchie internazionali che, a mio avviso e forse anche suo, hanno imposto delle politiche di austerità tramite il depotenziamento della rappresentatività democratica degli Stati?
        In ultimo: come voterà al referendum costituzionale?

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        • Penso che la crescita economica si è bloccata perché abbiamo smesso di parlare di problemi distributivi e penso che centrare la politica sulla distribuzione della ricchezza, delle opportunità (comprese quelle di partecipazione alla vita politica) sia un’esigenza indifferibile e sostanziale indipendentemente dal suo impatto sulla crescita economica. Non penso tanto alle classi economiche tradizionali ed a una guerra di classe, ma a proteggere e difendere coloro che non hanno rendite di posizione, ma hanno la capacità potenziale di cambiare il mondo in meglio, classi non protette. Vuol dire rivoluzione? Certo, per me sì, senza gli errori degli anni Sessanta, drammatici e sconvolgenti nelle loro conseguenze. Politicamente, ho sperimentato un numero svariato di sconfitte politiche in questi ultimi due anni, imparando molto ma non come attuare in concreto questa rivoluzione pacifica a cui si oppongono interessi specifici, tipicamente di moderni rentiers.

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          • “Guerra” di classe, addirittura.

            Stavo dicendo due cose:

            1) le politiche di redistribuzione secondo diversi criteri che vogliono colpire le rendite di posizione implicano, come sempre in una rivoluzione per quanto pacifica, che qualcuno debba “pagare un prezzo” ossia in altre parole una messa in discussione dei rapporti di classe o comunque la si voglia chiamare.
            Chi è che deve pagare il prezzo? I “rentiers” è vago perché la “rente” non è solo economica ma anche di privilegio sociale ossia, in termini pratici, di accesso privilegiato al mondo del lavoro per i propri figli.

            2) i movimenti anni settanta erano di giovani arrabbiati. Il punto è che i giovani se non sono arrabbiati, se non sono motivati dall’ideale del cambiamento non si muovono.
            Perchè si arrabbino costruttivamente e democraticamente occorre che dei punti di riferimento intellettuali indichino”con chiarezza” e senza mezze parole gli ideali, gli obiettivi, i mezzi.
            Il suo richiamo agli anni settanta è realmente molto forte o è un espediente retorico per drammatizzare il suo appello?

            Allora visto che due suoi lettori si sono dimostrati preoccupati e un altro interessato al “giusto vento rivoluzionario” da lei (non so quanto volontariamente…) invocato mi pare sia necessaria una risposta chiara su questi due punti.

            La mia opinione è che se lei come scrive non ha imparato come attuare in concreto questa rivoluzione pacifica è perché al momento di esplicitare le inevitabili implicazioni delle sue proposte cerca di rimanere sul vago per non scontentare nessuno come sta facendo adesso.
            Qualsiasi rivoluzione o semplice cambiamento comporta un prezzo da pagare, non esistono soluzioni win win, se non lo si accetta o si fa finta di non vedere il problema ci si condanna all’impotenza e all’inazione lasciando per di più – colpevolmente – il campo ai populismi beceri che come sa possono essere molto pericolosi.

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