Pubblicato sul Messaggero di oggi.
L’Italia che Renzi ha preso in mano, nel febbraio dello scorso anno, era affetta da due malattie: un’emorragia che rischiava di essere fulminante – fatta di perdita di lavoro, specie non qualificato, consumi e investimenti privati in calo, chiusura di imprese, soprattutto le più piccole e nel settore delle costruzioni – ed una condizione cronica, altrettanto grave, fatta di scarsa competitività, a sua volta nutrita da bassa produttività, di poco dinamismo imprenditoriale, di un alto tasso di migrazione della forza del lavoro fuori dal Paese.
Quando il Documento di Economia e Finanza fu presentato, due mesi dopo l’insediamento a Palazzo Chigi, quasi un anno fa, la carta che il Premier tentò fu quella dell’ottimismo. Nelle previsioni la produttività del lavoro veniva data finalmente e fortemente in crescita già dal 2014, mentre per gli investimenti privati nel il biennio 2014-2015, dopo il crollo di quasi il 5% del 2013, si scommetteva che sarebbero cresciuti del 2 e poi del 3%. Il PIL era dato in crescita dello 0,8% per l’anno in corso.
Non è andata così tanto bene, anzi. Il PIL ha perso lo 0,4%, anche perché gli investimenti privati sono diminuiti di addirittura il 3,3% e la produttività del lavoro dello 0,6%: sia l’emorragia che la malattia cronica sono peggiorate, portando il tasso di disoccupazione al suo livello più alto nel XXI secolo.
E’ giusto dire che eravamo agli inizi del mandato Renzi: molte variabili macroeconomiche non erano allora ancora sotto il suo stretto controllo, ma figlie dell’azione dei precedenti Governi, nessuna riforma era ancora stata attuata. A modificare il quadro si aggiunge il recente cambiamento drastico di orientamento della politica monetaria europea, il cui impatto più significativo si trasmetterà all’economia italiana via deprezzamento dell’euro, capace di ravvivare l’export italiano delle nostre imprese più internazionalizzate, tipicamente ma non esclusivamente le medio-grandi del Nord.
Motivi per sperare che il 2015 non ripeta il fallimento del 2014 dunque ve ne sono. Ma anche per temere che, malgrado la BCE, non si sia appreso a sufficienza dagli errori del passato, fossero essi del governo Monti, Letta o dello stesso Renzi. Quali sono stati gli errori chiave di questi ultimi anni? Senza dubbio il principale è stato sottostimare l’impatto che avrebbe avuto sulla domanda interna europea l’austerità fiscale avviata a partire dal 2011, proprio quando l’economia del Continente cominciava a rialzare la testa dopo la prima durissima crisi del 2008-2009.
Nel 2011 partiva infatti in tutta Europa la costruzione del Fiscal Compact che richiedeva ai governi senza se e senza ma di tagliare le spese ed alzare le tasse, annichilendo la timida ripresa privata con piani di rientro a quattro-cinque anni per ridurre debiti e deficit pubblici. Quattro o cinque anni, ovvero lo stesso orizzonte temporale lungo il quale gli imprenditori decidono se fare o disfare i loro progetti d’investimenti. Mentre negli Stati Uniti senza Fiscal Compact la disoccupazione rientra ai livelli ante crisi, in Europa esplode, come ben mostra il grafico riprodotto qualche mese fa da Mario Draghi. E la spiegazione è semplice: come negli anni Trenta, il settore privato è sparito dall’economia, rinunciando a consumare ed investire per il dilagante pessimismo ma, contrariamente ad allora, è invece mancato uno Stato che sorreggesse le imprese a suon di appalti pubblici, come fece Roosevelt e come in parte ha fatto Obama, lasciando dunque in ultimo precipitare la situazione europea ai livelli odierni.
IL DEF 2015 purtroppo pare non avere appreso nulla dagli errori del passato: sulla base delle richieste austere europee Renzi si impegna infatti a ridurre il deficit pubblico sul PIL del quasi 3% in tre anni. 10 miliardi di manovre ogni anno di maggiori tasse e minori spese a casaccio, come ormai è tradizione, scoraggeranno molti imprenditori dall’investire. Addirittura Renzi si mostra più realista dell’Europa quando si impegna per il 2018 e 2019 a superare (!) l’equilibrio di bilancio (strutturale) previsto in Costituzione e chiesto dall’Europa, e dichiara di avere effettuato uno “sforzo fiscale (di riduzione della spesa, NdR) superiore a quello richiesto” dai parametri europei: meno 1,6% in termini reali nello scorso anno e -0,5% nel biennio 2015-2016, contro la richiesta di aggregato di spesa costante da parte dall’austera Europa per il triennio.
L’alternativa? Mantenere il deficit pubblico al 3% di PIL nei prossimi tre anni, una decisione che avrebbe arrestato l’emorragia, liberando circa trenta miliardi di risorse da investire nel rifacimento, ad esempio, della nostra edilizia scolastica, dando lavoro a tantissime piccole imprese in crisi. Al contempo avremmo cominciato a curare la nostra cronica malattia, ripartendo dalla base più naturale per ricostruire la competitività del Paese, e cioè dal sapere e dalla speranza dei giovani, dopo aver restituito loro il diritto-dovere di studiare in ambienti e strutture che li facciano sentire seguiti ed apprezzati.
20/04/2015 @ 09:03
Ah bene, professore. Il deprezzamento dell’euro può agevolare l’export italiano, in particolare delle imprese più propense all’internazionalizzazione, per lo più collocate nel centro-nord del paese.
Una nuova lira questo stesso effetto ovviamente non potrebbe averlo, chissà come mai. Una nuova lira avrebbe anche il “modesto” effetto di favorire la sostituzione delle importazioni con prodotti nazionali che, guarda caso, potrebbero provenire anche da medio-piccole aziende del sud.
Ma naturalmente queste sono elucubrazioni di un populista
27/04/2015 @ 21:56
In che senso non potrebbe averlo? Chi ha mai detto che export non tirerebbe con liretta? Certamente i suoi vantaggi ora sono minori rispetto a quando euro era sopravvalutato, ma mai detto che non avrebbe questo effetto. Perché populista? Lei non legge abbastanza questo blog. Penso sia una follia risolvere i problemi europei con l’uscita dall’euro quando possiamo fare una cosa altrettanto difficile ma senza castrarci per sempre come progetto geopolitico, tutto qui.
ps: la cosa altrettanto difficile sarebbe l’espansione fiscale asimmetrica Nord- Sud.
28/04/2015 @ 08:41
Professore, non sono stato abbastanza bravo da far comprendere l’intento ironico del commento. Ironia per quell’idea (magari non proveniente da lei) un po’ bislacca che se svaluta l’euro va bene, se svalutasse la nuova lira andrebbe male.
Quanto al progetto “geo-politico” europeo, caro professore, con molta chiarezza le dico che delle sorti del nord Europa non posso che disinteressarmi. I governi di quei paesi sono nemici miei, suoi e di tutti i popoli mediterranei. Non solo è fallita l’UEM, è fallita l’UE. Prima crollerà meglio sarà
01/05/2015 @ 10:00
Ovviamente dissentiamo. Non ci tengo a morire circondandomi di nemici. Ci tengo a circondarmi di alleati, combattendo per affermare la mia unicità – sinora mai considerata – al tavolo dello sviluppo comune.
26/04/2015 @ 12:41
Questa “desipienza” nel gestire le variabili macroeconomiche, che risulta chiara non solo a Lei, ma perfino a me che non possiedo una frazione della sua conoscenza, non Le fa pensare ad un progetto politico con il debito come fulcro? Non intravede nella costruzione ideale di QUESTA Europa tanti modelli statali sudamericani di arretratezza per le masse ma di granitico (e senza alcuna legittimazione democratica) potere e ricchezza per le elites? Non pensa che dare respiro valutario ai paesi in cui l’euro è sopravvalutato avrebbe più effetti benefici di 100.000 calcoli basati sui decimali? Non si dà una risposta sul perchè non si fa?