Enrico Spolaore era mio compagno di banco all’università alla Sapienza. Era bravissimo, un secchione dicevamo noi, ma eravamo invidiosi. Si è laureato prima di me con quello che è stato anche il mio relatore, Mario Arcelli, ed è subito scappato in America a mietere successi. Al contrario di me non è più tornato; insegna alla ottima Università di Tufts vicino a Boston, ma ha conservato, al contrario di tanti colleghi rimasti negli Stati Uniti, una genuina passione per tematiche politiche che riguardano da vicino l’Europa, la sua Europa.
Ripercorrendo il suo ultimo lavoro sulle ragioni dello sviluppo dal dopoguerra della struttura istituzionale europea ho trovato utili suggerimenti per cercare di meglio comprendere come andare avanti in Europa senza far morire tutto.
Difficile andare avanti a tutti i costi. Spolaore ricorda di quando Tomaso Padoa Schioppa giocava sulla parola EMU (l’animale simile allo struzzo che non sa camminare all’indietro e l’acronimo dell’unione monetaria europea in inglese) per sostenere che eravamo destinati a non fare mai passi indietro. E di un Kohl che convintamente affermava come “è assurdo aspettarsi che nel lungo termine potremo mantenere una unione economica e monetaria senza una unione politica”, frase che a rileggerla oggi qualcuno potrebbe replicare “assolutamente, così assurdo che non riusciremo a mantenerla!”, convinto com’è che l’unione politica sia impossibile.
Spolaore ricorda come la storia della nostra integrazione europea ha visto il costante contrapporsi, e anche una sorta di alterna dominanza, di due correnti di pensiero: da un lato gli intergovernamentalisti, che pretendono che siano i governi nazionali a condurre le danze e le istituzioni sovranazionali a doversi piegare ai loro desideri, e dall’altro i funzionalisti, che credono che l’integrazione sia spinta piuttosto da élite e gruppi d’interesse che trascendono i confini nazionali. Monnet negli anni 50, con la CECA, e Delors negli anni 80 e 90 con, appunto, l’Unione Economica e Monetaria europea sono i personaggi di spicco che hanno dato successo, nella pratica, alla teoria funzionalista. L’Europa, per i funzionalisti, sarebbe nata da una serie graduale di cessioni di potere al centro su un numero crescente di materie, via dai governi nazionali, movimento che dovrebbe autosostenersi a quel punto grazie alla crescente convergenza culturale generata dal crescente peso di istituzioni europee.
I successi degli intergovernamentalisti però non sono stati pochi. La spuntano quando il Presidente francese De Gaulle, durante la “crisi della sedia vuota”, boicottò le istituzioni europee in opposizione alla domanda di maggiore integrazione. Il compromesso lussemburghese del 1966 in cui de facto ogni stato membro acquisì potere di veto su importanti questioni di interesse nazionale segnò il culmine del successo appunto degli intergovernamentalisti. La morte del Patto di Stabilità nel 2004 per mano di francesi e tedeschi segna un altro momento chiave, ma Spolaore ricorda anche il crescente ruolo in Germania che va oggi assumendo la giurisprudenza tedesca con la dottrina della Corte costituzionale dell’accettazione condizionale delle norme europee, che devono dimostrarsi coerenti con i princìpi fondamentali tedeschi.
Segni recenti, segni che il movimento funzionalista, basato sulla convergenza culturale a seguito dell’integrazione, ha il fiato corto proprio a 10 anni dalla costruzione dell’euro, apparentemente il suo più grande successo. L’unione bancaria stenta, l’unione fiscale è impossibile, così come una costituzione europea, già rigettata nel 2003. La crisi economica, spesso considerata dai funzionalisti uno strumento per rilanciare il processo di integrazione e sottrarre sovranità agli Stati membri, pare piuttosto esaltare ora la possibilità di disintegrazione.
Spolaore correttamente individua nella crescente eterogeneità dei costi di ulteriori aumenti di cessione di sovranità la causa prima di questo rallentamento della progressione funzionalista. Prendete ad esempio il successo della creazione del mercato unico, avvenuto abbattendo il protezionismo commerciale interno all’Europa: esso ha generato vantaggi simili per tutti gli Stati membri (malgrado vi fossero costi per specifiche categorie di persone/imprese, ma presenti in ogni Paese) anche grazie alla diversificazione produttiva tra di loro (se tutti avessimo prodotto lo stesso bene, abbattere le barriere protezionistiche probabilmente avrebbe dato vantaggi molto forti per quegli Stati più bravi a produrre quel bene e danni alti a quelli meno bravi ed è probabile che le barriere protezionistiche sarebbero rimaste, come è stato il caso dell’agricoltura in Francia).
Ecco spiegata l’impasse attuale. Fatto l’euro, la crisi che in esso conosciamo deriva dall’impossibilità di procedere ulteriormente con crescenti cessioni di sovranità come vorrebbero i funzionalisti. Al contrario del caso del mercato unico, non esiste una politica unica che faccia bene a tutti. Le riforme deflazioniste chieste dalla Commissione fanno male al Sud, le politiche espansive chieste dal Sud sono rifiutate da Commissione e Germania. C’è troppa differenza tra Stati membri per poter proseguire nel creare istituzioni europee senza mettere a rischio l’euro e dunque il progetto europeo, tramite l’uscita dalla valuta comune di uno o più di questi.
Spolaore afferma che “forzare la mano” continuando ora con una unione fiscale sarebbe una mossa comunque suicida: “faccio fatica a vedere come una unione politica basata su tali precondizioni possa costituire un avvio solido per una federazione europea; sarebbe altamente improbabile che tale unione politica possa far scattare quei cambiamenti culturali positivi che sono la sola fondazione sostenibile per una federazione coesa nel lungo periodo”.
Per Spolaore la soluzione è di procedere per piccoli passi, per esempio con una unione bancaria. Ed è solo in questa sua conclusione che non mi ritrovo, semplicemente perché i piccoli passi non portano da null’altra parte che inevitabilmente verso il burrone dell’addio all’euro.
E’ dunque tornato il tempo degli intergovernamentalisti? Il paradosso è che, a questa tornata, neanche loro se la passano bene. Perché in presenza di interessi nazionali così divergenti, la scelta di ogni Paese di “lasciare vuota la poltrona” o porta all’inazione (derivante dal potere di veto di chi si alza e dice no) o porta alla separazione. Comunque alla morte dell’euro e dell’Europa.
Siamo a quel punto del guado del fiume, a metà diremmo, dove nessuno si salva da solo, ma dove l’abbraccio del debole al compagno forte per sopravvivere rischia di far affogare ambedue. Non possiamo tornare indietro, non sappiamo come andare avanti: lo struzzo emu è paralizzato, la testa sotto la sabbia.
Gli economisti chiamano queste situazioni instabili degli “equilibri multipli”. In essi piccoli ed impercettibili avvenimenti ci possono condurre casualmente verso la salvezza o la morte; oppure vi potrebbero essere “ondate di ottimismo (o pessimismo)” che possono fornire quella spinta ad atterrare in una situazione (la salvezza) piuttosto che un’altra (la morte). Tipicamente queste ondate si propagano influenzando le aspettative delle persone, nel bene o nel male. E la leadership esercita un ruolo fondamentale, potete ben immaginare, in tal senso.
Una leadership europea, che sappia ridare fiducia alle aspettative della gente d’Europa, non deve promettere più e nuove istituzioni, né si deve arroccarsi in difesa dell’interesse nazionale. Deve cercare un interesse europeo e lo deve difendere rappresentando le preferenze di tutti, Nord e Sud.
L’unica via che vedo è quella di sempre: una leadership che dia immediata solidarietà ora, smettendo di parlare di fredde regole del 3% del PIL o di pericolo di inflazione, facendo cessare l’austerità e la voce di istituzioni “fredde” come la Commissione europea e la BCE attuale, in cambio di un solido progetto di riforme comuni europee su valori essenziali, ponendo al centro ad esempio quello che ci rende, a noi del Sud, giustamente insopportabili di fronte all’Europa del Nord; facendo cessare con un no profondo e convinto sprechi, corruzioni, Mafie, anche grazie all’aiuto dell’esercito di pubblici officiali del Nord.
L’alternativa? L’ondata di pessimismo, che ci farò annegare tutti a noi europei, e, male minore, a tutte le teorie politiche sull’Europa.
26/06/2013 @ 06:06
‘esso ha generato vantaggi simili per tutti gli Stati membri’
mi piacerebbe sentire il parere di alberto bagnai su questa supposizione…
26/06/2013 @ 06:19
‘esso ha generato vantaggi simili per tutti gli Stati membri’
invito spolaore a compare i dati della produzione settore automotive (giusto un comparto poco significativo in italia…)
nei paesi eurozona dall’entrata nell’euro fino all’anno scorso
(non lo cito a memoria ma vi assicuro che sono in netto contrasto con l’asserzione ‘ il mercato unico ha generato vantaggi simili per tutti gli stati membri’ )
http://www.radioradicale.it/scheda/383755/leuropa-tra-recessione-e-contraddizioni-delleuro
(ascoltate l’inervento di masera ,almeno)
non cito , per pieta’ , il famoso discorso di prodi all’universita’ di perugia dove narra che per convince i germanici a fare entrare l’italia nell’euro avrebbe promesso ai germanici di ‘costruire un lattodotto fra baviera e norditalia’ in modo che il latte (e i prodotti germanici potessero arrivare in italia senza costi aggiunti) ….il settore del latte dell italia del nord ringrazia …
cosi’ come i consumatori italiani di prodotti made in germany (che sono hanno ‘lievemente’ aumentato i loro consumi di prodotti germanici con l’introduzione dell’euro…)
‘esso ha generato vantaggi simili per tutti gli Stati membri’
(……)
26/06/2013 @ 06:22
http://www.lavoce.info/quelle-politiche-necessarie-ma-impossibili-in-un-solo-paese/?utm_source=buffer&utm_campaign=Buffer&utm_content=buffer750d7&utm_medium=twitter
Morale: o la soluzione la troviamo assieme ai nostri compagni di viaggio europei, riformando profondamente istituzioni comunitarie dimostratesi fallimentari, e contemporaneamente attuiamo, tutti assieme, politiche monetarie e fiscali molto espansive, oppure corriamo il rischio che siano i mercati o i popoli a separare le nostre strade. Mentre scriviamo, già sentiamo alzarsi i giudizi di utopismo e ingenuità. “Ma nel momento in cui l’euro e l’Europa minacciano di crollare, bisogna cambiare modo di pensare. Anzi, questa situazione di crisi conduce a un rovesciamento di valore del realismo. Ciò che fino ad oggi era considerato ‘realistico’ diventa ingenuo e pericoloso, perché deve addossarsi il crollo. E ciò che era considerato ingenuo e illusorio diventa ‘realistico’ perché cerca di impedire la catastrofe e insieme di rendere il mondo migliore”
26/06/2013 @ 06:27
Poi ricordiamo chi fosse e quali politiche amasse tommaso padoa schioppa :
http://archiviostorico.corriere.it/2003/agosto/26/BERLINO_PARIGI_RITORNO_ALLA_REALTA_co_0_030826002.shtml
La Germania aveva vinto per anni, decenni, combinando la superiore qualità dei suoi prodotti industriali (chi compra una Mercedes non bada al prezzo) con la superiore stabilità dei prezzi: le periodiche rivalutazioni del marco premiavano la combinazione ma vi contribuivano anche, perché proprio esse calmieravano i prezzi. La Francia, dopo la svalutazione del 1983, aveva preso la ferrea determinazione di fare «come e meglio della Germania»; un severissimo controllo dei salari accrebbe anno dopo anno la competitività favorendo la crescita.
non restavano che le riforme strutturali, eterno ritornello di quelle che Luigi Einaudi chiamava le sue prediche inutili: lasciar funzionare le leggi del mercato, limitando l’ intervento pubblico a quanto strettamente richiesto dal loro funzionamento e dalla pubblica compassione.
Nell’ Europa continentale, un programma completo di riforme strutturali deve oggi spaziare nei campi delle pensioni, della sanità, del mercato del lavoro, della scuola e in altri ancora. Ma dev’ essere guidato da un unico principio: attenuare quel diaframma di protezioni che nel corso del Ventesimo secolo hanno progressivamente allontanato l’ individuo dal contatto diretto con la durezza del vivere, con i rovesci della fortuna, con la sanzione o il premio ai suoi difetti o qualità.
26/06/2013 @ 06:45
anche grazie all’aiuto dell’esercito di pubblici officiali del Nord
sarebbe interessante fare un esperimento tipo portare tutti i cittadini di Düsseldorf a napoli e quelli di napoli a Düsseldorf
Io ricordo che pensai una cosa simile quando presi una multa
per una fatto considerato assolutamente insignificante (E quindi non punito ) in italia : portiamo la polizei initalia e mandiamo carabinieri vigili e poliziotti in germania…(nel lungo termine…)
26/06/2013 @ 10:59
I funzionalisti sono tecnici e hanno visioni troppo spesso striminzite e servili. Solo i politici di razza hanno le visioni che possono mobilitare i popoli (nella direzione giusta o in quella sbagliata).
De Gaulle, che era un politico di razza per antonomasia, preferiva le confederazioni alle federazioni, perché era consapevole del fatto che uno stato federale europeo era prematuro ed avrebbe rischiato di far saltare tutto:
“Il faut bâtir une confédération, c’est-à-dire un organisme commun auquel les divers États, sans perdre leur corps, leur âme, leur figure, délèguent une part de leur souveraineté en matière stratégique, économique, culturelle. (…)
Mon opinion est que les institutions confédérales doivent comporter : le Conseil des Premiers ministres ; une Assemblée procédant du suffrage universel et un autre représentant les réalités régionales, économiques, intellectuelles, morale, des États participants ; enfin une Cour, dont les membres, inamovibles, seront choisis parmi des magistrats” (conferenza stampa, 25 febbraio 1953).
Inoltre, dava molto più spazio ai referendum, perché sosteneva che senza una vasta legittimazione popolare le fondamenta dell’istituzione sarebbero state fragilissime.
Quel che voleva era un’Europa emancipata dalla NATO, in grado di mediare tra est e ovest. Non è certamente quel che ci è stato concesso di costruire. Ma non è detta l’ultima parola.