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Combattendo il fato e la falsa meritocrazia per far emergere il talento

Avete tutti la vostra lista di top 10 che portereste se doveste naufragare su un’isola deserta. 10 film dico. Io ce l’ho e cambia sempre nel tempo. Alcuni restano sempre. L’unico che non cambierà mai è C’era un volta in America di Sergio Leone, il ragazzo di Viale Glorioso a Trastevere.

Va beh, mi e vi distraggo. Per chi ricorda il film c’è una scena drammatica e divertentissima in cui la banda di gangster capitanata da Robert De Niro e James Woods deve ricattare il Commissario di Polizia corrotto, Aiello, a cui è appena nato il primo figlio maschio dopo 5 femmine. Per farlo, entrano nella sala dove dormono tutti i neonati e modificano i cartellini agli stessi, tenendone la lista e minacciando il Commissario (che nel frattempo, impazzito, si ritrova con la sesta figlia) che se non aderisce alle loro richieste non gli faranno sapere qual è il suo vero figlio.

 

Piccolo problema, perdono la lista. Si ricordano solo numeri pari per i maschi e dispari per le femmine. Decidono quindi di dare al Commissario, che nel frattempo ha aderito alle richieste pur di riavere suo figlio, un numero a casaccio. E James Woods (mi pare) esclama a quel punto: “siamo meglio del fato. Ad alcuni diamo la bella vita (good life) ad altri gliela mettiamo in quel posto” (scusate l’improprietà, ma erano gangsters): “We’re better than fate. We give some the good life, give it to others up the …”

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Si nasce con un talento innato o il reddito dei nostri genitori influenza la nostra capacità di divenire talentuosi?

Domanda rilevante anche per determinare il ruolo delle politiche fiscali, in particolare della progressività delle aliquote: se il reddito dei genitori conta per il talento dei figli allora ancora maggiore tassazione sui ricchi a favore dei poveri può migliorare la distribuzione dei talenti e risultare più efficace di una semplice redistribuzione ai poveri per livellare le differenze di reddito ma  non invece le opportunità. Efficace per tutta la società, non solo i poveri, perché è tutta l’economia che si giova di una maggiore capacità di abilità al suo interno.

E’ la domanda a cui cercano di rispondere due ricercatori di due tra le migliori università di Business del mondo, Harvard e Wharton, Alexander M. Gelber e Matthew C. Weinzierl, per la prima volta modellando le scelte pubbliche quando non solo l’abilità del figlio dipende dal talento dei genitori, ma anche dal loro reddito. Essi partono infatti da altri studi rigorosi che mostrano a loro volta come al crescere del reddito i risultati di test scolastici dei figli migliorano, e loro stessi osservando come “la probabilità che un genitore con salario alto (basso) abbia un figlio “talentuoso” (“non talentuoso”) è del 26,9% mentre la probabilità che un genitore con salario basso (alto) abbia un figlio “talentuoso” (“non talentuoso”) è del 23,1%.”

La loro analisi ha dei limiti che deriva dai dati a disposizione: non sanno come vengono spesi questi maggiori soldi dai più poveri (liquirizie o libri o SUV?), non sanno come i genitori modificano il tempo (se passando più o meno tempo coi figli o per conto loro o al lavoro). Eppure è un inizio importante di un nuovo modo di modellare questi problemi dove finora il talento era stato tratteggiato come innato.

Partendo dal reddito medio, le loro simulazioni su dati Usa dicono che: un aumento di 1000 dollari nel reddito dei genitori causa un aumento (diminuzione) di 2,25% (2,11%) nella probabilità che un genitore non talentuoso (talentuoso) abbia un figlio talentuoso (non talentuoso).

Paragonato all’attuale sistema fiscale Usa, scoprono che la migliore politica fiscale dovrebbe essere più progressiva a favore dei genitori più poveri così che tutta la società nel tempo benefici di questa maggiore disponibilità di talenti.

Certo, potrebbe anche prendere la forma di schemi di tassazione scolastica sussidiata per i più poveri in cui i sussidi sono pagati dalle famiglie più ricche, aggiungo io. E certo, il modello andrebbe calibrato sulla realtà italiana che è probabilmente più professava di quella americana. Comunque sia, uno stimolo forte, intellettualmente parlando, a pensare a come lasciare molto meno al fato la decisione su come allocare il talento, patrimonio di cui alla fine beneficiano tutti, ricchi e poveri, senza presumere che questo non dipenda dalla ricchezza di partenza degli individui e quindi non limitandosi ad attuare poliiche meramente “meritocratiche”, che finiscono per favorire chi alla gara dei 100 metri partiva con 3 metri in meno da correre.

3 comments

  1. Si nasce con un talento innato e il reddito dei nostri genitori influenza la nostra capacità di svilupparlo.
    Questa secondo me è la visione corretta che, se mi si passa la pignoleria, detta come presentata nell’articolo si presta ad essere male interpretata.
    L’indagine è comunque meritoria perché, se non altro, fornisce una quantificazione che è importante per valutare il fenomeno, ma ha conclusioni abbastanza scontate. Appare infatti ovvio che disponendo di risorse adeguate ciascuna persona è in condizioni di far emergere il meglio; questo non significa che poi lo faccia realmente, ma può farlo, e questo gli dà una responsabilità. Elemento essenziale e sempre più assente nella società.
    Quello che lascia invece sgomenti (almeno nella realtà italiana, non so altrove) è vedere come si impedisca alle persone di avere pari condizioni di partenza: nel tempo aumenta sempre più la distanza tra chi parte avanti e chi parte indietro, con tanti saluti all’equità sociale. Ma questo in buona parte è colpa nostra.

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    • Credo che sia in parte semantica ma in parte no: non credo che talento sia innato e tutto avvenga dopo. Se le mammme povere fumano di più il feto ne risente.
      Comunque, la questione qui non è tanto sulle risorse adeguate o meno ma sulla loro distribuzione a parità di esse, e cioè sul valutare l’ottimalità di una data politica fiscale tenendo conto anche di questo fattore. L’equità sociale di cui parla lei mi pare appunto intesa a rimborsare i danni di un torto dopo (ridò ai figli poveri dei poveri) quando invece la questione qui è quella di instaurare un’opportunità prima (dò ai genitori poveri, ma anche per i figli che forse allota non saranno più poveri). Non a caso il lavoro mostra come sia ottimale …. fare più debito, ovvero tassare di più dopo e meno prima nel tempo. Ma questo non l’ho scritto per non creare ambiguità anche perché non è chiaro quando è il punto di partenza e se noi l’abbiamo già superato (in questo caso sarebbe come dire che abbiamo fatto bene a fare debito nel dopoguerra).

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  2. Il problema concreto è che lo svilippo dei talenti anche presso i poveri implica una maggiore mobilità sociale. Come si fa a costringere i ricchi a pagare perché i figli dei poveri possano avere la possibilità di stare meglio dei loro ( o a accettare qualsiasi altra misura che permetta una maggiore mobilità sociale )?

    La possibilità concreta di mobilità sociale è l’unico collante sociale in tempo di pace. Peccato che il passaggio dal basso all’alto ne comporti inevitabilmente uno dall’ alto al basso.

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