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Quei difficilissimi anni ottanta, quando nacque il debito ma si salvò l’Italia?

Incredibilmente interessante il passaggio dell’articolo sul Tempo di Cirino Pomicino sulle cause del debito pubblico italiano che vi metto in calce. L’autore sostiene che vi furono due momenti chiave del rialzo. Uno, secondo lui inevitabile, negli anni 80. L’altro, evitabilissimo, in quest’ultimo decennio. Ma mi interessa qui, come fonte di archivio storico degli eventi del nostro Paese, non lasciar cadere le frasi scritte da una persona che è stato testimone privilegiato (e discutibile secondo alcuni o molti) del suo tempo e condividere con voi perché e come la politica, sedutasi a tavolino, decise scientemente di lasciare andare il debito pubblico negli anni Ottanta. E’ una spiegazione affascinante che fa percepire in tutta la sua drammaticità l’epoca che vivemmo allora e l’impossibilità spesso di sganciare l’economia dal sociale.

Al divorzio BI-Tesoro avrebbe dovuto da subito affiancarsi una politica di bilancio diretta a contenere l’evoluzione della spesa corrente e ad aumentare la pressione fiscale, che nel 1981 era di appena il 31,1% a fronte di circa il 43 in Francia e in Germania. Così non avvenne ma per un ragionamento politico in cui si riconobbero la Dc di De Mita, il Psi di Craxi, il Pri di Visentini e gli altri due partiti di governo, il Psdi e il Pli. In cosa esso consistesse è presto detto. Nel biennio ’80-’81 successivo alla morte di Aldo Moro le brigate rosse avevano scatenato la campagna meridionale con l’assassinio di due consiglieri regionali della Dc in Campania e con il rapimento Cirillo e la strage della sua scorta. Tutte le informazioni dei servizi segreti e dei corpi speciali delle forze dell’ordine convergevano su un’unica certezza: il terrorismo non era finito e cercava di trarre nuova linfa dal disagio sociale del mezzogiorno, trasformandolo in ribellismo urbano che rappresentava un humus fertile dal quale il brigatismo rosso poteva facilmente reclutare nuove e disperate energie. Mettere in moto una politica di bilancio restrittiva e riequilibratrice dei conti pubblici con più tasse e minore spesa pubblica avrebbe realizzato una miscela esplosiva fatta di minore crescita, più bassa occupazione, ridotta massa spendibile delle famiglie, elevata inflazione e terrorismo. Una miscela che avrebbe impedito di battere il terrorismo (ancora nel 1982 a Napoli vennero gambizzati due assessori comunali, uno comunista e uno democristiano) e che avrebbe reso impossibile accelerare il rientro dall’inflazione con l’accordo del 1984 sulla scala mobile fortemente contrastato dalla sinistra sindacale e politica. Di qui la decisione di puntare a sconfiggere innanzitutto i due veri nemici della democrazia, dello sviluppo economico e della coesione sociale e cioè il terrorismo e l’inflazione. Il costo di questa possibile vittoria l’avrebbe naturalmente pagato Pantalone. E così fu. Dalla tabella 1 si vede che per effetto delle politiche poste in essere l’inflazione venne progressivamente ridimensionata come già detto dal 21,2% dell’80 al 5% dell’88; il debito, nello stesso periodo, passò dal 58,2% del Pil al 90,8%, oltre 32 punti in più, un aumento più che doppio rispetto al periodo ’71-’79 in cui l’inflazione accelerava. Per lo stesso meccanismo descritto precedentemente per gli anni ’70, il ridimensionamento dell’inflazione nel decennio ’80 ha contribuito a far emergere il peso del disavanzo e del debito; in questa direzione operava anche l’orientamento rigoroso della politica monetaria che, riportando i rendimenti dei titoli pubblici al di sopra del tasso d’inflazione, accresceva la spesa per interessi. Dal punto di vista fattuale l’esplosione del debito fu dovuta: 1)a una bassa pressione fiscale (nel periodo ’81-’88 pari in media a poco meno del 35%, a fronte del 45 in Francia e del 42,5 in Germania) che consentì a molte famiglie italiane di accumulare parte di quegli ingenti risparmi di cui oggi meniamo vanto in Europa. 2)a una abnorme crescita della spesa per interessi (dal 5,1% del Pil dell’81 all’8,3% del 1988) 3)a una modesta crescita del complesso delle altre spese correnti (due soli punti di Pil in 7 anni) che si attestò al 37,2% nel 1988. Sono questi i dati economici frutto di quella decisione politica dei partiti di governo che riconsegnò agli italiani nel 1988 un’Italia “normalizzata” sul terreno democratico (l’uccisione nel 1988 del senatore democristiano Ruffilli fu solo il colpo di coda del terrorismo brigatista morente) e su quello della coesione sociale (nel 1990 dopo un decennio di lenta ma progressiva discesa per la prima volta il tasso di occupazione nel Sud tornò ad aumentare giungendo al 32,7% e il reddito pro-capite salì al 59,3 rispetto al Centro-Nord). Restava, naturalmente, il nodo del debito pubblico, il costo cioè di questa normalizzazione. Un debito che era per il 90% direttamente o indirettamente nelle mani delle famiglie italiane; esse se, per ogni componente, avevano, come si diceva, 30 milioni di debiti avevano in media anche 28 milioni di crediti. Per dirla in breve, quel debito non intaccava assolutamente la sovranità nazionale come purtroppo accade oggi dal momento che la metà del nostro debito è nelle mani di investitori stranieri.

Per aggiungere dati, non ci fu recessione in Italia nei primi anni ottanta, ma nel triennio 81-83 di cui si parla ci fu una stagnazione con tassi di crescita del PIL vicini allo zero. Dall’84 in poi la crescita riprese vigorosa e l’inflazione si quietò. E fu proprio allora che partì verso l’alto il rapporto debito-PIL. Ma il risparmio delle famiglie aumentò, in parte saggiamente, assicurando le future generazioni dall’aumento inevitabile che sarebbe arrivato un giorno, delle tasse per ripagare quel debito. Con il senno di poi, forse la crescita avrebbe potuto essere sfruttata meglio per non lasciare andare via verso l’alto i saldi di finanza pubblica ma col senno di poi, come sappiamo….

Non ci sono lezioni da imparare da periodi così unici e irripetibili. Una sola la voglio buttare nell’arena del dibattito. Le recessioni spesso si accompagnano con fasi di tensioni sociali, spesso le causano, altre volte vi gettano benzina sul fuoco altre ancora sono causate dalle stesse (scioperi ecc.). Combattere le recessioni dunque vuol dire combattere anche queste fasi di tensione e contribuire alla loro risoluzione. Gli strumenti che la politica deve usare nelle recessioni devono  essere sofisticati e non meccanici, credibili ma anche flessibili e devono avere un occhio di riguardo per le situazioni più intricate dove si annida fortemente il disagio. Nelle recessioni gli economisti servono ma, per carità, non solo loro.

2 comments

  1. Interessante.
    Appare chiaro come sia necessario ricomprarci il nostro debito e il nostro stile di vita, considerato che le banche straniere non intendono più sovvenzionarcelo.
    Inutile combattere contro i mulini a vento, le decisioni delle banche estere. Molto più utile riacquistare il nostro debito pubblico, che è figlio dei nostri sprechi e dei nostri errori. E lo dico a 42 anni…

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  2. Ok, tutto il discorso dell’on. Pomicino, però possibile che tutta la malapolitica, il malaffare che regnava negli ultimi sospiri della DC, non abbia un peso comunque determinante per quanto riguarda l’esplosione del debito pubblico che nel decennio 80/90 schizzò di 40 punti percentuali?
    L’inflazione galoppante degli anni precedenti non era forse più una maschera di ciò che effettivamente doveva essere già da prima, un debito pubblico prossimo al 100%?

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