Oggi il mio pezzo su Il Sole 24 Ore
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L’uscita autunnale della NADEF, come ha sottolineato il Ministro dell’Economia e delle Finanze Daniele Franco, di solito non costituisce occasione di ampio interesse, semplicemente perché viene a aggiornare solo lievemente gli obiettivi di Governo così come sono stati approvati 6 mesi prima nel DEF, il Documento di Economia e Finanza pluriennale che stabilisce il quadro programmatico di politica fiscale.
Tuttavia in quest’ultimo semestre la crescita economica di tutti i paesi occidentali è stata rivista in maniera decisa al rialzo a causa dei miglioramenti delle prospettive consentite dagli effetti del vaccino. L’Italia, che nel 2021 crescerà del 6% rispetto al 4,5% previsto, non sfugge a questo apparentemente felice destino. Eppur tuttavia tutte le statistiche internazionali ci ricordano del nostro ritardo nel rilancio post-Covid: a fronte (recenti stime Ocse) di un mondo che vede una crescita a fine 2022 del 6,8% rispetto al livello del PIL 2019 (pre-Covid), trascinata dalla prorompente ripresa statunitense (+6,5% grazie alle politiche fiscali veramente espansive di Biden) e rallentata da quella di un’area euro ancora timida (+3,4%), l’Italia è maglia nera con un livello del +1,1%. Responsabile di questa performance così rachitica nel tempo non può che essere l’anomala richiesta al nostro Paese di adottare, a partire del 2022, una restrizione di bilancio senza precedenti, approvata appunto dall’ultimo DEF di aprile e dall’Unione europea. Essa prevedeva che, a fronte di un (quanto mai necessario) ampliamento del deficit su PIL 2021 previsto all’11,8% per aiutare la nostra economia colpita dalla seconda ondata di Covid, ci si dovesse legare ad una brusca ed immediata riduzione di questo, per il 2022, al 5,9%. Si tratta di ben 120 miliardi in un anno di minori spese pubbliche e maggiori entrate fiscali che non potevano fare altro che minare ogni qualsiasi velleità di ripresa simile a quella di altri Paesi come il nostro duramente impattati dalla pandemia come la Spagna, a cui non è stata richiesta analoga austerità. E, in parallelo, il DEF conteneva una promessa di raggiungere al 2024 un deficit-PIL del 3% (3,4% per essere precisi), una soglia gradita ai falchi europei, simbolo iconico mai svanito dell’antico patto austero chiamato Fiscal Compact.
Ecco perché la NADEF era attesa da tanti come una possibile ultima spiaggia, un tentativo di ribaltare la nostra performance negativa di ripresa economica per il tramite di una politica economica fiscale per il triennio 2022-2024 più espansiva. E questo perché la maggiore crescita 2021 costituiva un inatteso bonus: e cioè la possibilità, dato il miglioramento dei conti pubblici dovuti appunto al ciclo, di confermare l’11,8% di aprile per il tramite di addizionali nuovi investimenti pubblici che, in un vero e proprio circolo virtuoso, avrebbero ulteriormente sospinto la crescita verso i livelli degli altri paesi europei e la contemporanea riduzione del debito pubblico sul PIL.
Già, perché lo stesso Presidente Draghi ha preso atto (esplicitamente) di quanto da tempo alcuni economisti vanno sostenendo: che il solo modo di ridurre il rapporto debito-PIL italiano è quello di attivarsi per una maggiore crescita. E se infatti l’inattesa crescita al 6% ha portato la stima di quest’ultimo per il 2021 a ridursi dal 159,8% di aprile al 153,5% di ottobre, possiamo immaginare quale sarebbe stato il potere taumaturgico sul debito di un ulteriore spesa virtuosa in investimenti, volta a farci crescere come gli altri paesi europei?
Che sorpresa dunque abbiamo provato nell’ascoltare Daniele Franco annunciare come il Governo al contrario non aveva l’intenzione di approfittare di questa ghiotta occasione per confermare l’indebitamento all’11,8% promesso ad aprile, ma piuttosto di prendere atto che “le spese sono state inferiori alle attese” e che il Governo non le avrebbe compensate con extra investimenti e maggiore crescita, lasciando invece che l’indebitamento 2021 si attestasse al 9,4%, 2,4% di PIL in meno (circa 40 miliardi di euro) di quanto promesso ad aprile. Di questo 2,4% ben l’1,7%, i due terzi, era anche riduzione di indebitamento netto strutturale, ovvero non dovuto al ciclo ma ad una scelta specifica del Governo di effettuare minori spese di quante previste ad aprile.
Detta in altro modo, questa scelta, mantenendo immutato il target 2024 del deficit al 3,3%, è stata volta ad anticipare l’austerità dal 2022 al 2021 e con essa il percorso di rientro fiscale di un anno. Ne ha risentito anche la crescita economica prevista per il 2022, che dal 4,8% di aprile è scesa di un punto decimale.
Il nostro Presidente del Consiglio è l’unico ad avere la reputazione e l’attenzione dei suoi colleghi europei da poter convincere tutti che l’Italia, spendendo bene in maggiori investimenti, riuscirebbe tramite la crescita a ridurre il suo debito su PIL. Avrebbe potuto argomentare con successo, ne siamo certi, che sarebbe stato bene non solo confermare il deficit su PIL italiano del 2021 all’11,8 del PIL ma anche che la sua riduzione al 2024 avrebbe dovuto essere stata ridotta, al 6% per esempio e non al 3%, permettendo di mettere l’Italia e dunque l’Europa in sicurezza per il tramite della nostra addizionale crescita economica. Così non è stato, e per chiunque si proclami accanito tifoso del progetto europeo e dell’euro, questa non è una buona notizia.
Watersongs è di Angela Maria Piga