Oggi su il Manifesto.
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Molti dei miei studenti, dopo gli studi in programmi prestigiosi in Italia o all’estero, si avviano verso importanti carriere che li portano anche a posizioni di leadership nelle istituzioni multilaterali di sviluppo, dove si decide quotidianamente della vita di individui, società e nazioni. Sono bravissimi e meritano questi percorsi di crescita. Eppure qualcosa mi colpisce. I libri di testo che utilizzano sono gli stessi che usavo io circa 35 anni fa, quando avevo la loro età. Manuali che hanno la stessa struttura ideologica che permeava il mio mondo, pieno di ottimismo sul futuro e sui benefici pervasivi della globalizzazione per il tramite dei mercati. Alcuni di noi, nel corso della carriera didattica e di ricerca, hanno tentato di sganciarsi dai lacciuoli mentali che ci hanno imbrigliato per lungo tempo, impedendoci di vedere e prevedere, come era nostro dovere, il dipanarsi di una crisi senza fine, che dal 2009 in poi è diventata politica, oltre che economica, forse proprio per la povertà delle soluzioni che siamo stati capaci di offrire.
Nonostante perseverare sia diabolico, nulla appare mutato nella struttura dominante della formazione delle future classi dirigenti, seppure con importanti ma sostanzialmente irrilevanti eccezioni. Se 35 anni fa era impossibile prevedere l’arrivo dell’intelligenza artificiale, la fine della globalizzazione, la crisi del modello democratico, la prorompente crescita cinese e indiana, la ripresa dei conflitti in larga scala – anche se avremmo invece dovuto avere il coraggio di disegnare scenari utopistici, così come fece Keynes, con un successo straordinario nelle “Possibilità economiche per i nostri nipoti” – oggi è forse ancora impossibile prevedere quali contesti e innovazioni affiancheranno le future generazioni nel 2060. E’, però, obbligatorio rispondere alle sfide che ci pongono quegli eventi che 35 anni fa non prevedemmo e che oggi devono essere il pane quotidiano delle nostre analisi.
Eppure, lo ripeto, i programmi che impartiamo ai nostri studenti non sono mutati, come le nostre politiche. Sono certo diverse invece, e magari andrebbero studiate attentamente, quelle che vengono portate avanti nell’altra parte del globo, quella che fatichiamo a riconoscere come ormai superiore, economicamente e tecnologicamente, alla nostra. Eppure non ci mancherebbero gli elementi per modificare i nostri modelli mentali anchilosati. Leggendo il Financial Times scopriamo che in Spagna stanno per arrivare 2000 lavoratori cinesi, per una joint venture tra Stellantis e l’azienda cinese CATL, nel cui stabilimento di batterie per veicoli elettrici non entreranno, almeno all’inizio, lavoratori locali, probabilmente per proteggere i segreti tecnologici del gigante asiatico. Il successo della Cina non è fatto di singoli esempi interventisti di politica industriale, è ubiquo e aggregato. Dal 2020 il mondo è cresciuto di circa il 16%, cancellando il crollo del 2020 dovuto al Covid, ma questa crescita è fortemente diseguale, con la Cina che registra un più 30%, l’India che quest’anno cresce più della Cina stessa, l’area dell’euro che è cresciuta del 5%, un sesto della Cina, e la Germania cresciuta solo dello 0,5%. Tutto questo dovrebbe stimolare riflessioni intense sul modello economico di riferimento che qui da noi in Europa dovremmo intendere come ideale e da promuovere.
In realtà due modelli europei di successo economico post-Covid paiono esservi: Spagna e Italia, con una crescita post 2020 sopra la media euro, del 9,5% e del 6,7% rispettivamente. Numeri che però vanno scomposti per carpirne il messaggio fondamentale. La Spagna ha tassi di crescita del PIL in ognuno degli anni del quinquennio sempre superiori al 2,5%, il cui motore principale – ci dicono i dati – è l’espansione della domanda pubblica, che con questa crescita abbatte contemporaneamente di 10 punti il rapporto debito-PIL, accoppiando progresso e stabilità. L’Italia invece ha una miseranda crescita in ogni anno del quinquennio tra lo 0,6% e 0,7%, fatta eccezione per il 2022, in cui si generarono due terzi della crescita complessiva del lustro (4,7%). In quell’anno la politica fiscale espansiva dell’ecobonus, con tutte le sue imperfezioni, portò anche all’unico abbassamento concreto del rapporto debito-PIL, oltre alla ripresa di un settore edilizio fatto di migliaia di piccole imprese, martoriate dall’austerità ideologicamente autoimposta da quasi un ventennio ormai.
Certo, sarebbe possibile ideare politiche fiscali espansive ancora più capaci di impattare positivamente la nostra economia e i nostri conti pubblici: le attendono da anni i nostri ospedali, le nostre scuole, le nostre università, le nostre forze dell’ordine, i nostri tribunali, le nostre carceri, le nostre coste, i nostri territori e le nostre infrastrutture critiche. Tutte politiche che farebbero anche crescere la produttività delle nostre imprese. Ma il punto non è tanto o solo questo, quanto la necessità di prendere atto finalmente di come l’austerità ci abbia ucciso lentamente e di come sia non più rimandabile, per le future generazioni, insegnare e spiegare come rimettere la mano pubblica al centro della nostra azione di politica economica a supporto di cittadini, imprese, progresso e dignità delle persone, per poi procedere politicamente a cambiare il modello economico di riferimento, salvando così la nostra civiltà dal pericolo imminente di scomparsa nell’irrilevanza.
Opera: “Allo specchio – Impallati”. Copyright opere Angela Maria Piga, all rights reserved.


