Su Il Fatto Quotidiano, qualche giorno fa, il mio intervento.
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Vi è bisogno di nuove regole che governino la politica fiscale europea, afferma la Commissione nella sua recente “Comunicazione” al Consiglio europeo dei capi governo dell’Unione (Ue). Un momento sempre importante della governance del Vecchio Continente, quello in cui l’organico tecnico più alto si indirizza all’organo politico più alto. E purtuttavia dovrebbe rimanere una disparità di poteri: in ultima analisi la tecnica si dovrebbe inchinare alla politica, in omaggio al voto democratico che ne ha sancito la legittimità a governare e legiferare. La Commissione europea ne è ovviamente conscia: si indirizza al Consiglio premettendo che “l’attuale quadro normativo si applica ancora” e che spetta, in questa fase di transizione, solo ed esclusivamente ai capi di governo decidere cosa fare e, eventualmente, come poi modificare le regole del contratto sociale europeo su quanto ogni Stato membro possa spendere e come finanziare tale spesa.
Fatta questa premessa, la Commissione usa un gergo particolare per portare la politica ad indirizzare il nuovo contesto normativo nella direzione ad essa gradito. E dunque abbondano nel documento espressioni come “gli stati membri sono invitati a”, “la Commissione si fa trovare pronta a” e come entro la primavera di quest’anno questa fornirà ai Paesi dell’Ue “una guida alle politiche fiscali” del 2024. Guida che naturalmente segue i precedenti orientamenti della Commissione, che hanno trovato una sintesi in un documento di proposta a inizio novembre del 2022, e su cui la politica non si è ancora de facto pronunciata, divisa come è al suo interno, specie tra Nord e Sud, tra austeri e meno austeri. La Commissione invece non è spaccata e non esita a definire l’emergenza come terminata e a vedere come necessario dichiarare terminato il periodo di “clausola di salvaguardia” che aveva permesso ai Paesi, durante il Covid, di espandere i deficit a supporto dell’economia. Che qualcuno possa interpretare il triennio trascorso come uno in cui il Patto di Stabilità e Crescita sia stato “bloccato”, e abbia visto attivata la clausola di salvaguardia, cozza in maniera stridente con l’esame dei tanti piani di stabilità sottoposti in cui ogni governo è stato chiamato (dopo l’iniziale supporto per il 2020) a produrre piani di rientro del deficit su PIL al 3% entro 3 anni, senza se e senza ma. Sono dunque rimaste in piedi durante questo trascorso triennio quelle stesse politiche che lungo tutto il decennio precedente ci hanno condannato, per il tramite di politiche austere in tempi di crisi fatte di riduzioni di deficit, non solo alla recessione prima e alla stagnazione poi, ma anche alla clamorosa crescita del nostro debito pubblico in rapporto al PIL a causa del crollo del PIL generato.
La Commissione, muovendosi in anticipo rispetto alla politica, in realtà non le porge omaggio, ma cerca di vincolarne ulteriormente lo spazio di autonomia. E’ una mossa ispirata da una ideologia, quella dell’austerità, ma che poggia anche su proposte operative di messa a terra di tale visione del mondo che mette in difficoltà i più fragili all’interno di ogni Paese, e in particolare il nostro. Perché la comunicazione, nella sua nota a pié di pagina 9, come già contenuto nella proposta di novembre, chiede di attribuire alla Commissione il potere di dividere i paesi tra quelli di serie A (senza “sfide” di debito) e quelli di serie B (con sfida di “debito”); richiedendo ai secondi di rimanere austeri e non supportare la loro economia in difficoltà e permettendo ai primi di investire maggiormente, ampliando il divario tra le due aree del continente, premessa drammatica alla entropia interna dell’Ue e a una possibile separazione in stile Brexit. Che poi queste politiche siano da raggiungersi per il tramite di “sanzioni alla reputazione” del singolo Stato membro in difetto, la dice lunga sull’architettura malata su cui poggiano i capisaldi logici dell’ideologia dell’organo tecnico.
L’Italia non ha un “debt-ratio” (un “rapporto debito”) alto, vorremo ricordare alla Commissione, che usa una espressione tecnicamente incomprensibile ancor prima che scorretta. Ha un rapporto debito-PIL alto o meglio un rapporto PIL-debito troppo basso, questo sì. Il che significa che ha bisogno di investimenti pubblici in deficit per rialzarsi. Ed è l’attuale disastro in termini di messa a terra del PNRR per incapacità a spendere (a sua volta dovuta a mancanza di capacità amministrativa), che avrebbe avuto, questo sì, bisogno di essere monitorato dai tecnici europei e di essere oggetto di aiuto e raccomandazioni specifiche.
Invitiamo dunque il Governo Meloni a porre senza indugio il veto all’invito della Commissione europea a mettere in pratica le sue sado-masochistiche proposte, per evitare la fine a breve termine del progetto di unione del nostro Vecchio ma così importante Continente.
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