Sono due le sfide su cui si giudicherà il contributo specifico di Mario Draghi all’uscita dalla crisi economica, ben al di là delle briciole che sono i risparmi di spesa per interessi, di massimo 2 miliardi l’anno (0,1% del PIL), che appaiono all’orizzonte al calare dello spread. Hanno a che vedere rispettivamente con il “quanto” e con il “come” della gestione di tutte le risorse che ruotano attorno al Recovery Plan, sia quelle rese disponibili dall’Europa, sia quelle che si vorrà rendere disponibili dall’interno.
Sul “quanto” il Governo uscente lascia numeri chiari, utili per un futuro confronto. Dei 196 miliardi di euro previsti dal Recovery, 127 arriveranno come prestiti. Di questi 127, 74 (quasi il 40% del totale della somma totale) vanno a finanziare progetti già esistenti, sostituendo prestiti “italiani” con prestiti “europei”, portando dunque solo un piccolo risparmio di interessi – essendo le somme UE a tassi leggermente inferiori – ma senza un impatto addizionale su crescita e occupazione. I rimanenti 53 miliardi a prestito, da utilizzare su progetti “nuovi”, e quindi effettivamente capaci di generare crescita aggiuntiva, si propone di spenderli nel secondo triennio, dal 2024 al 2026, troppo tardi.
Inoltre, il Governo Conte prevedeva di destinare solo il 70% delle risorse agli investimenti pubblici, lasciando una quota del ben 21% agli incentivi, e ciò malgrado la corretta affermazione contenuta nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) stesso che “gli investimenti pubblici, rispetto alle misure di incentivazione degli investimenti privati, generano un effetto moltiplicativo sulla produzione e l’occupazione assai più favorevole e durevole”. Perché allora solo 70%?
E’ dunque evidente che il successo di Draghi si misurerà in primis dalla sua capacità di: 1) spostare i 74 miliardi da risorse su progetti “vecchi” a su progetti “nuovi”, 2) anticipare al 2021-23 l’avvio delle spese legate ai 53 miliardi dedicati a progetti nuovi, 3) portare la quota di investimenti almeno al 90%.
Sorge tuttavia un dubbio. Come mai il Governo Conte non ha utilizzato per nuovi investimenti tutte le risorse prese a prestito dall’Europa e ne ha comunque rinviato al 2024 l’inizio di utilizzo per quella parte “produttiva” dedicata a nuovi investimenti? Semplice, perché lo “chiedeva” l’Europa. Come infatti si legge nello stesso PNRR, “la scelta di impiegare una parte dei fondi del PNRR per il finanziamento di alcune politiche e di singoli progetti già in essere, coerentemente con le priorità europee … ed in linea con i Regolamenti europei, diventa necessaria al fine di assicurare la compatibilità con gli obiettivi di sostenibilità finanziaria di medio-lungo periodo che il Governo ha adottato il 5 ottobre con la NADEF”. Effettivamente la Nota di Aggiornamento al Documento di Economia e Finanza contiene l’impegno del precedente Governo di ridurre nel quadriennio 2020-2023 il rapporto deficit-PIL dal
10,8% al … 3% (un numero non casuale, caro all’Europa dell’austerità), ovvero di quasi 8% di PIL, più di 120 miliardi di maggiori entrate e minori spese. Come immaginare che in tale contesto di richieste dall’Europa si potesse prendere a prestito per usarli per maggiore spesa gli stessi fondi… europei? A tale domanda ne andrebbe piuttosto contrapposta un’altra: come immaginare che in tale contesto di richieste dall’Europa si possa pensare di riprendere un percorso di crescita e di contestuale riduzione del rapporto debito-PIL?
Ecco dunque che, quantitativamente parlando, il successo di Draghi per quanto detto poc’anzi andrà misurato con la sua capacità di convincere l’Europa che maggiori deficit, tramite un decisamente più graduale (al 2026?) rientro al target del 3%, sono non solo necessari ma essenziali per la ripresa del nostro Paese; deficit da destinare a spendere i prestiti europei non in progetti già in essere ma in nuovi progetti. Nel suo discorso al Senato ha dimostrato di aver ben chiara la sfida che vi è connessa: “la quota di prestiti aggiuntivi che richiederemo tramite la principale componente del programma, lo Strumento per la ripresa e resilienza, dovrà essere modulata in base agli obiettivi di finanza pubblica”. Ma modulata in che direzione? La risposta sarà decisiva per le sorti del Paese.
Sul “come”, è bene partire da un’evidenza nota, confermata da uno studio della Banca d’Italia che Mario Draghi governò anni addietro. In un Quaderno di Economia e Finanza di fine 2019, Busetti e 5 co-autori ebbero modo di sottolineare come con l’aumento della spesa pubblica per investimenti realizzato in deficit si genera una riduzione del rapporto debito pubblico-PIL tramite l’aumento dell’attività economica che ne consegue. Vi è però una condizione: che non vi siano “dispersioni improduttive”, ovvero che si garantisca la qualità della spesa legata agli investimenti. Un risultato che combacia con l’enfasi europea all’Italia di spendere una parte significativa dei fondi del Recovery verso l’ottenimento di maggiore “capacità amministrativa”.
Ebbene è noto che il Governo Conte nel suo PNRR dedica al “rafforzamento e valorizzazione del capitale umano” della Pubblica Amministrazione la misera cifra di 720 milioni di euro, ovvero lo 0,3% circa del totale dei fondi europei, circa 200 euro per dipendente pubblico! E’ impensabile affidare le ingenti somme allocate in nuovi progetti, gare d’appalto ed ispezioni senza stanziare risorse essenziali per nuovi (giovani) progettisti, responsabili unici del procedimento ed ispettori. Solo se almeno un 5% delle risorse, 10 miliardi di euro, sinora dedicate inspiegabilmente ad incentivi, verrà re-indirizzato su investimenti in capitale umano si potrà sperare che gli investimenti pubblici a valere sulle somme europee (a prestito e a fondo perduto) vengano realizzati e non vengano sprecati, garantendo crescita, occupazione e
riduzione del debito pubblico-PIL. E’ questa l’ultima ma forse la più sfidante delle dimensioni sulla quale dovremo misurare se Draghi e la sua squadra si sono differenziati, almeno nelle intenzioni di partenza, dal Governo Conte. Nel Documento di Economia e Finanza primaverile troveremo la risposta.