Il mio pezzo di ieri sul Sole 24 Ore.
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La proposta di una riforma fiscale con “flat tax” non è certamente nuova. L’idea di un’aliquota unica si combina tipicamente con una deduzione per i redditi bassi per replicare una qualche forma di progressività impositiva coerente con esigenze di giustizia sociale. Quando è costruita così da mantenere costante il gettito complessivo dello Stato, qualcuno finisce sempre per pagare più tasse e qualcun altro meno (di solito le persone a reddito alto).
L’Istituto Bruno Leoni, coordinato da Nicola Rossi, ha sviluppato una nuova proposta coraggiosa, presentata sul Sole 24 Ore, di una flat tax del 25% applicata a tutte le principali imposte del nostro sistema tributario. Una proposta che, innanzitutto, si preoccupa di non essere percepita come iniqua ed a vantaggio dei soli ricchi. I grafici pubblicati mostrano come l’aliquota media dopo il passaggio alla flat tax sia più bassa per tutte le categorie di reddito, condizione certamente necessaria affinché non vi siano opposizioni politiche alla proposta. Vi è un’incongruenza tra questa caratteristica della proposta dell’Istituto (“tutti ci guadagnano”) con quanto da noi sostenuto (“qualcuno ci perde sempre”)? No, se consideriamo che la seconda affermazione è legata all’ipotesi che il gettito complessivo dopo la riforma non muti mentre nella proposta di Rossi l’obiettivo è quello di un abbattimento di gettito e di pressione fiscale. In tal modo è certamente possibile che la flat tax e le deduzioni siano calibrate così da far sì che tutti paghino meno tasse.
Se questo è vero, non va tuttavia nemmeno nascosto che il vantaggio in termini di riduzione percentuale dell’imposizione è ben più ampio per le categorie ricche che per quelle meno abbienti: dal 40 al 20% per i percettori di reddito superiori a 200.000 euro, dal 20 a 10% per quelli con 50.000 e immutata per i redditi più bassi. Un individuo con un reddito di 200.000 euro risparmierebbe dunque circa 40.000 euro di tasse, uno con 50.000 euro solo 5.000 euro circa. Pare politicamente arduo, in un’epoca di difficoltà per le classi più povere e di aumento delle disuguaglianze, far passare tali guadagni così asimmetricamente distribuiti. Basterebbe però modificare la proposta, tramite un aumento delle deduzioni per i redditi più bassi accompagnato da una seconda aliquota più alta solo per i redditi alti (una “quasi flat tax”), per ridurre la percezione di possibile iniquità della distribuzione dei vantaggi della proposta, che rimarrebbero comunque diffusi a tutti i nuclei soggetti ad imposta.
Ma il merito vero e proprio della proposta dell’Istituto non sta tanto nel suggerire una mera riforma della tassazione, ma piuttosto di definire una strategia “ambiziosa” che si occupa, come dovrebbe essere sempre per questo tipo di analisi, di tasse, spese, debito e deficit. Nella loro visione, è ideale immaginare una riduzione del perimetro dello Stato tramite una coraggiosa e condivisibile spending review fatta di addirittura 27 miliardi di tagli di sprechi, che permetterebbe di garantire che la flat tax non generi maggiore deficit.
E’ questo quello di cui oggi abbiamo bisogno? E’ noto che, in questa fase di crisi, diminuzioni delle imposte non sbloccano il pessimismo dominante e si tramutano in timidi risparmi e non in maggiore domanda.
Mi permetto allora di mettere sul tavolo una proposta alternativa: anch’essa parte da una vera spending review, e magari anche da una “quasi-flat tax”, una che tuttavia replichi (e non riduca) l’attuale gettito totale dello Stato, forse con un’aliquota fissa al 30% che sale al 40% solo per i redditi alti. E cosa fare dei risparmi così ottenuti dalla spending? Un aumento di 27 miliardi degli investimenti pubblici, in particolare ad alto contenuto infrastrutturale, efficaci visto che parliamo di uno Stato che avrà imparato a spendere bene. Così facendo, senza aumentare il deficit, si sosterrà la produttività delle imprese, l’occupazione delle persone con basso grado di istruzione, la riduzione delle disuguaglianze, la ripresa dei consumi e della fiducia.
La (quasi) flat tax non è dunque né liberista né keynesiana, ma cosa facciamo dei risparmi della spending review sì. Il dibattito è aperto.