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Con una grande responsabilità un grande potere per l’Università del domani

Il mio intervento al Forum of University Managers in occasione del Giubileo.

L’università, in Italia e quasi ovunque nel mondo, si sta aprendo alla multiculturalità. E’ un fenomeno ovviamente spinto da “fattori della domanda”: la globalizzazione, con l’abbattimento dei costi della distanza, da un lato, e la concorrenza degli altri atenei, dall’altro, ci spingono a rendere le nostre università più aperte.

Ma, più rilevante, ci sono “fattori dell’offerta”: in particolare, la voglia dei nostri Atenei di completarsi, perfezionarsi, migliorarsi proprio tramite una maggiore internazionalizzazione. Quest’ultima, tuttavia ci permette di fare di più: ci spalanca la porta verso il conseguimento di nuovi obiettivi, prima non alla nostra portata.

Il che significa che quando discutiamo di come internazionalizzarci non è soltanto una questione di efficienza e di chiederci “come” farlo, ma anche di efficacia, ovvero di “perché” farlo, di cosa cercare di conseguire con essa.

Rispondere al perché aiuta anche a capire meglio il come.

Nel mio Ateneo la risposta che ci diamo è semplice. Lo facciamo per avere più diversità nelle nostre aule. Più diversità di passaporti. Ovviamente poi ci chiedono “e perché mai? Perché non andare a cercare più italiani, che forse sono più bravi di quegli stranieri che corteggiate?”.

Per due ordini di motivi. Primo perché puntiamo a perfezionare le capacità di apprendimento individuale di ogni giovane. “Diversity makes you brighter” – la diversità ti rende più intelligente. Vari esperimenti puntano a confermare la validità di questa intuizione: quando si espongono gruppi culturalmente omogenei e gruppi culturalmente eterogenei a una serie di quesiti, i secondi risultano rispondere in maniera più accurata. Interagendo nella diversità evitano di copiarsi andando nella stessa direzione, spesso sbagliata. “La diversità genera frizione cognitiva che migliora il processo decisionale” affermano i sociologi Sheen S. Levine e David Stark che così concludono: “la diversità razziale ed etnica contano per l’apprendimento, un obiettivo chiave di una università. Aumentare la diversità … promuove un pensiero critico maggiore in tutti”.

http://www.nytimes.com/2015/12/09/opinion/diversity-makes-you-brighter.html?smid=tw-share&_r=0

Ma non è solo questione di perfezionare l’apprendimento individuale. L’esposizione alla diversità affina le capacità relazionali dei nostri giovani. E qui bisogna essere precisi su quello a cui miriamo. Non tanto a “tollerare maggiormente” l’altro, di essere capaci di far sedere accanto, al banco, il nero ed il bianco. Quante volte abbiamo visto classi piene di diversità diventare arcipelaghi di isole di culture omogenee: gli italiani assieme agli italiani, poco più in là i cinesi con i cinesi e dall’altra parte gli arabi con gli arabi…

No, la sfida è ben più significativa, tanto quanto gli eventuali risultati nel caso di successo. E’ questione di generare su quei banchi una “fratellanza tra diversi” che trasforma cacofonia e rumore in un’orchestra armonica. Un apprendimento non da poco per il contributo alla società globalizzata che questi ragazzi sapranno dare quando entreranno nel mondo del lavoro. Altro che convivere, un “vivere con” che farà cambiare in meglio il mondo.

L’università è il luogo ideale dove sviluppare questa convivenza, che così tanti conflitti risparmierà al mondo e così tanta bellezza e creatività potrà generare. Per farlo tuttavia c’è bisogno che le università siano attrezzate per queste nuove sfide che possono guidare e perfezionare. C’è bisogno di nuove competenze, di nuove disponibilità, di maggiori risorse, sia a livello di corpo docente che amministrativo. Oltre che di una nuova leadership organizzativa che sappia rispondere al “come organizzarci”, per l’internazionalizzazione avremo bisogno di una nuova umanità organizzativa che sappia cogliere appieno i contenuti culturali immensi di questa sfida.

E’ mia impressione che l’università sia più pronta, più predisposta, più preparata per insegnare come governare la globalizzazione e le sue sfide. E’ l’avamposto del cambiamento e dunque merita di potersi assumere pienamente questa enorme responsabilità. Nessun Governo può esimersi dal sostenere, finanziariamente e culturalmente, questo avamposto.

Rovesciando il paradigma dell’Uomo Ragno, che sosteneva come “con un grande potere, una grande responsabilità”, mi sento di dire che con una grande responsabilità, che l’Università ha acquisito nel mondo globalizzato, deve venire un grande potere, che oggi all’Università viene miopicamente negato.

4 comments

  1. C’è bisogno che nuove competenze, nuove disponibilità, maggiori risorse l’università se le dia, le cerchi e le trovi al suo interno, senza aspettare il solito pantalone, o all’esterno, sviluppando le collaborazioni possibili con il territorio, il sistema produttivo la società civile ma, soprattutto, spogliandosi dell’atteggiamento da marchese del grillo.

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    • Sì capisco il suo punto, valeva 10 anni fa, lo facevo anche io. Le risorse si sono da allora drammaticamente ridotte, il mondo delle università all’estero ha accelerato grazie a risorse sempre maggiori e non è più tempo di criticare il sistema dall’interno. Le risorse, mirate, devono venire. Certo che ci deve essere responsabilità da parte di chi le riceve, premi e penalità per il loro utilizzo. L’impegno dei singoli, i controlli sulla qualità certo ma, ripeto, la cabina di regia non è più rinviabile, con tutto quello che comporta.

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  2. Pingback: Con una grande responsabilità un grande potere per l’Università del domani - www.bollettinoadapt.it

  3. Claudio Braccesi

    12/09/2016 @ 10:30

    E’ vero si fa un gran parlare di ‘internazionalizzazione’. Ma temo (sono sicuro) che i nostri atenei falliranno clamorosamente questo obiettivo (tranne alcuni:politecnici ed es). Non solo. Nel perseguire l’internazionalizzazione si faranno guerra tra loro rimettendoci tutti. Non c’è una ragione specifica per cui l’Italia attragga spontaneamente studenti dall’estero (tranne per le discipline umanistiche e delle arti, almeno in teoria). In un mondo che fu, quando l’Italia aveva qualche piccolo ruolo ‘geopolitico’ (parlo degli anno settanta-ottanta) dalla Somalia, Eritrea, Libia, anche dalla Grecia) avevamo un certo numero di studenti stranieri. Eravamo ‘internazionalizzati’ senza saperlo. Ora che vorremmo esserlo non lo saremmo mai. Oltretutto, da allora, la nostra università è diventata un ente inutile e solo autoreferenziale (serve solo ai professori) e quindi questo è un ulteriore motivo di mancanza di attrattività. Credetemi non sono pessimista!

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