Oggi su Il Messaggero il mio pezzo.
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La Banca Centrale Europea ha di recente dato alle stampe il suo rapporto semestrale sullo stato della finanza nell’area dell’euro.
http://www.ecb.europa.eu/pub/pdf/other/safe_website_report_2014h2.en.pdf
Intervistate su quale sia la loro preoccupazione principale, piccole e grandi imprese dell’area monetaria comune considerano entrambe l’accesso alla finanza come il meno rilevante dei problemi (con l’importante eccezione delle imprese greche). Quelle del “Nord” hanno motivato la risposta affermando che più che ricorrere alle banche utilizzano risorse e liquidità interne. Quelle del “Sud” – invece – hanno una triplice motivazione: rifiutano le condizioni offerte o si vedono rifiutare dalla banca il credito o, ancora, non fanno proprio domanda di prestito.
Le ragioni di queste ultime son presto dette: non domandano finanziamenti non perché non hanno possibilità di accedervi ma, semplicemente, perché il loro problema principale nella gestione imprenditoriale è quello, testualmente, di “trovare clienti”. Che senso avrebbe chiedere prestiti per finanziare l’attività se a questo costo non corrisponderebbe nessun ricavo, causa mancanza di affari?
Una eccezione a questo quadro alquanto preoccupante, e che pare mettere un serio punto interrogativo sull’efficacia della politica monetaria di Francoforte per riavviare l’attività economica europea, è costituita dai dati provenienti dalle interviste alle imprese internazionalizzate. Queste ultime non solo sono state aiutate dal deprezzamento dell’euro susseguente al QE di Draghi (che stimola ulteriormente il loro export già sviluppato), ma appaiono sia più interessate che maggiormente capaci di ottenere prestiti dal sistema bancario rispetto a quelle (tante) imprese che non esportano e si limitano a soddisfare la domanda interna al loro Paese. Le ragioni di questo dinamismo sono evidenti: da un lato vendendo in aree geografiche in crescita (esterne alla depressa area euro) sono desiderose di fare investimenti e di trovare liquidità per sostenerli, dall’altro, essendo percepite come meno rischiose dal sistema bancario, riescono ad ottenere più prestiti.
L’Italia al suo interno è composta da tante micro e piccole imprese, molte delle quali dedicate a soddisfare la sola domanda interna, sia strutturalmente sia perché all’inizio del loro percorso di crescita. Sono loro a rischio in questa crisi, ben di più di quelle grandi e quelle internazionalizzate. A loro va rivolta dunque l’attenzione delle politica economica, in attesa che riparta la domanda privata di consumi delle famiglie e di investimenti delle imprese. Il Governatore Visco, nelle sue recenti Considerazioni Finali, ha espresso preoccupazione per la sorte di molte di queste realtà: “esiste il rischio, particolarmente accentuato nel Mezzogiorno, che la ripresa non sia in grado di generare occupazione nella stessa misura in cui è accaduto in passato all’uscita da fasi congiunturali sfavorevoli… la domanda di lavoro da parte delle imprese più innovative potrebbe non bastare a riassorbire la disoccupazione nel breve periodo. Ne risentirebbe la stessa sostenibilità della ripresa, che non troverebbe sufficiente alimento nella spesa interna. Questo rischio va contrastato sostenendo… l’attività in settori dove l’Italia ha tradizioni importanti ma carenze di rilievo e dove vi è ancora bisogno di un elevato contributo di lavoro, diversificato per competenze e conoscenze. Una maggiore attenzione, maggiori investimenti pubblici e privati per l’ammodernamento urbanistico, per la salvaguardia del territorio e del paesaggio, per la valorizzazione del patrimonio culturale possono produrre benefici importanti, coniugando innovazione e occupazione anche al di fuori dei comparti più direttamente coinvolti, quali edilizia e turismo.”
In un clima pessimistico come quello attuale solo questi investimenti pubblici salverebbero tante imprese dalla chiusura definitiva, incidendo positivamente sia sull’occupazione con basso contenuto di istruzione che su quella che richiede competenze specifiche avanzate. Non opere faraoniche, ma progetti di piccola dimensione, mirati, come promise il Ministro Del Rio il giorno del suo insediamento al Ministero delle Infrastrutture.
Ma come sostenere questi investimenti pubblici, e dunque la sopravvivenza delle imprese che contano oggi solo su di essi se, come spesso si sente dire, “mancano le risorse”? Con un’azione “a tenaglia”, che richiederebbe tuttavia una volontà di ferro da parte dei nostri politici.
Da un lato, mantenendo il deficit pubblico nei prossimi tre anni al 3% del PIL, invece che portarlo allo 0% come masochisticamente promesso dai vari Governi, compreso l’ultimo, che si sono succeduti in questi anni recenti di crisi economica. Così si libererebbero circa 10 miliardi l’anno rispetto alle cifre stanziate sinora, denaro che permetterebbe di finanziare investimenti senza infrangere il vincolo di finanza pubblica previsto dal Trattato originario di Maastricht. Certo, vorrebbe dire mettere in soffitta il suo nefasto addendum, il Fiscal Compact, ma l’Italia non farebbe altro che accelerare un cambiamento dei Trattati che pare ogni giorno più inevitabile, come un recente rapporto del Fondo Monetario Internazionale afferma.
Eppure ciò non basterebbe. Non basterebbe a tranquillizzare i mercati, né i nostri partner europei. Perché questi non avrebbero alcuna garanzia che quei fondi liberati sarebbero poi usati bene, senza sprechi dovuti a corruzione o incompetenza. Ecco perché il Governo italiano dovrebbe una volta per tutte avviare quella spending review, specie sugli appalti pubblici che occupano un terzo circa di tutta la spesa pubblica italiana: perché lentamente ma inesorabilmente ciò porterebbe a risparmi strutturali e permanenti tali da poterci permettere di raggiungere un bilancio in pareggio una volta fuori dalla crisi, e perché allo stesso tempo consentirebbe di rassicurare mercati e stati membri sulla nostra capacità di spendere bene qualsiasi risorsa si rendesse disponibile.
Questa seconda mossa della strategia “a tenaglia” richiederebbe forse uno sforzo politico ancora maggiore di quello dal profondersi in Europa per una moratoria sul Fiscal Compact. In effetti, richiederebbe alla coalizione di Governo di sconfiggere senza se e senza ma la corruzione e l’incompetenza negli appalti, investendo risorse significative nei controlli e nella preparazione, remunerandolo adeguatamente, del personale presso le stazioni appaltanti. Significherebbe di fatto mettere fine a tutte le Ostia d’Italia, dove corruzione e incompetenza si annidano e si rafforzano a vicenda. E’ da lì, in effetti, più che da Francoforte, che riparte la speranza per un’Europa dello sviluppo e della crescita.
17/06/2015 @ 08:29
Non mi è chiara una cosa… Ma la presunta incompetenza e la corruzione negli appalti è cosa di oggi o c’era anche 20 o 30 anni fa?
(Con questo chiaramente non voglio dire che la corruzione sia cosa buona e giusta, peraltro sono di Ostia e sarei be felice di vedere meglio gestita la mia città…)
20/06/2015 @ 15:36
Penso che ci sia molta più intolleranza oggi per la corruzione di ieri. Cosa ottima. Non so poi rispondere alla sua domanda, i dati ci sarebbero, se solo lasciassero ai ricercatori la possibilità di lavorarci sopra.
17/06/2015 @ 09:39
Pezzo molto bello! Concordo.