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L’alleanza di quelli con il verbo al futuro

Tänään on kylmää

Oggi fa freddo, in finlandese.

Huomenna on kylmää

Domani fa freddo, in finlandese.

Pardon, farà freddo. Ma i finlandesi dicono così: domani fa freddo. Come oggi. Fa freddo.

*

C’è chi, nel parlare del futuro, non ha bisogno di marcare la differenza con il tempo del verbo. Noi sì. Anche i francesi, e tutti coloro che parlano in inglese. Che differenziano nel verbo a seconda che si parli del presente o del futuro.

I tedeschi, no: Morgen regnet es. Domani piove. Sì domani piove, non “domani pioverà”. I cinesi nemmeno.

Cosa succede se da più di duemila anni ti eserciti con un linguaggio che non marca le differenze tra presente e futuro?

Oh, cose incredibili. Almeno secondo il giovane Prof. Keith Chen della Yale University, ormai alla ribalta, negli Stati Uniti, con la sua ricerca pubblicata sul giornale più prestigioso per noi economisti, l’American Economic Review sul legame tra struttura del linguaggio e scelte di risparmio. (In calce al blog il video-short dove descrive ad un pubblico non specialistico il suo lavoro).

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Chen esamina quei linguaggi che nel discorrere abituale richiedono di dissociare il futuro dal presente (italiano, inglese) e quelli che non lo fanno (tedesco, cinese).

E afferma: quelle persone che distinguono nel loro parlare corrente tra presente e futuro? Risparmiano di meno. Perché creano uno iato mentale tra i due momenti. Perché fanno sentire distante, meno rilevante dell’oggi, il futuro. Oppure perché chi marca distintamente il futuro nel suo discorrere ha su questo meno incertezze e quindi necessita di risparmiare di meno.

Un po’ come gli effetti permanenti della Grande Depressione che aumentò per lungo tempo la propensione al risparmio dei nostri bisnonni e nonni, sconvolti dal dubbio che quella tempesta sarebbe un giorno tornata.

E cosa scopre Chen? Scopre che, in aggiunta a tutti i fattori che già sappiamo influenzano le scelte di risparmio, il linguaggio che utilizziamo è capace di spiegare in maniera statisticamente significativa perché si risparmia: addirittura i paesi con lingua “che differenzia il futuro” (barre scure) risparmiano in media il 6% in meno di PIL rispetto ai paesi con lingua dominante “che non differenzia tra presente e futuro” (barre bianche). E i pensionati che parlano lingue “con futuro” hanno accumulato circa il 39% di ricchezza finanziaria in meno di pensionati equivalenti che parlano lingue “senza futuro”.

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Certo, la lingua potrebbe essere il segnale di un qualcos’altro nella cultura in questione che spiega il risparmio: Chen cerca questo qualcos’altro ma non lo trova.

*

E così eccovi spiegati in un attimo le differenze di risparmio tra tedeschi ed italiani che spiegano la crisi? Tutta una questione linguistica? Chissà.

Certo è che se così fosse l’Europa avrebbe nel suo DNA l’antidoto alla crisi: il comune parlare (in inglese?) dovrebbe … lentamente avvicinarci. Questione di qualche decennio o forse secolo. E i tedeschi diverranno più … spendaccioni. :-)

E’ anche vero che la recessione attuale comincia, almeno per l’area “sud” dell’euro, ad assomigliare sempre più alla Grande Depressione degli anni Trenta (ancora più buia, forse, vista l’assenza di un Roosevelt che possa salvarci). Se così fosse, ben presto dovremmo assistere, al di là del linguaggio, ad una crescita strutturale del tasso di risparmio del Sud a causa del crescente timore ed incertezza sul futuro. Un altro fattore di convergenza, così come auspicato dai tedeschi?

Purtroppo no. Parliamo di effetti di lungo periodo. Affascinanti di per sé. Ma quando l’austerità avrà ucciso l’Europa sarà troppo tardi per rallegrarci di una tale convergenza.

Ecco. Se vi è qualcosa che possiamo trarre dall’affascinante studio di Chen è proprio sull’austerità.

Se i tedeschi hanno una lingua che gli fa dare lo stesso peso a presente e futuro e dunque a guardare con maggiore intensità al futuro di quanto non facciano italiani e greci, rovesciamolo, questo risultato: i tedeschi danno culturalmente meno peso al presente di quanto non facciamo noi ed i greci. Se così è, si capirebbe perché si ostinano a non comprendere i drammi del consumo corrente e dell’attuale occupazione dei paesi in preda a crisi gravissime. E pensano che riforme a 10 anni possano essere utili a risolvere i problemi.

Una ragione in più per costituire un’alleanza politica che fronteggi e si contrapponga ai tedeschi in un franco dibattito contro l’austerità. L’alleanza di quelli con il verbo al futuro.

 

8 comments

  1. Lo studio di Chen è solo una conferma ristretta all’incidenza di una particolarità linguistica ben precisa.
    Più intuitivamente – che io sappia non ci sono studi in merito – molti si sono accorti del diverso modo di pensare in una lingua, il tedesco, che non fa distinzioni tra “colpa” e “debito”.
    Più scientificamente, il rapporto pensiero-linguaggio è stato affrontato in molte ricerche interculturali da cui risulta che lo studio dei processi cognitivi deve necessariamente fare riferimento all’analisi delle caratteristiche linguistiche delle società.
    Tali studi, pur non totalmente convergenti, sono comunque d’accordo nel sottolineare che il simbolismo del linguaggio influenza lo sviluppo cognitivo.
    Di conseguenza le faccio osservare che un futuro europeo in lingua inglese determinerà la scomparsa di tutte le culture nazionali europee. In pratica siamo già morti.
    Data la portata di tali culture nella storia dell’umanità, penso che è (tempo indicativo presente) una catastrofe. Solo un un ingenuo e falso buonismo di stampo “piddino” può valutare positvamente una simile perdita poiché, come testimoniano innumerevoli guerre civili, la pace e la fratellanza non sono affatto garantire dall’uniformità della lingua.

    p.s. Mi pare esistano studi anche sull’influenza delle religioni sulle questioni economiche. Spero non sia prevista una conversione in massa al calvinismo, pur con tutte le criticità della santa romana chiesa.

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      • Non è necessario abbndonare in toto la lingua nazionale.
        Oggi ci sono abbondanti mezzi di comunicazione (l’ultimo e più potente- digital divide risolto davvero- è internet) per poterci permettere un bilinguismo diffuso (per es. inglese e lingue nazionali dei diversi paesi dell’unione europea).
        Ci si potrebbe arrivare a livelli soddisfacenti di diffusione generalizzata in tempi relativamente brevi (dieci anni o poco più), specie tra i giovani.

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  2. Sì però il Belgio é bilingue con un lingua “con” e una “senza” ma il signor Chen non si sa perché decide di metterlo fra i “senza” (guarda caso come la sua Cina); la Svizzera é trilingue e anche quella la si mette fra i “senza”; il Lussemburgo svetta in primissima posizione fra i “senza” e sta lì a far media come la Russia o gli Stati Uniti nonostante sia grande appena come un quartiere di Los Angeles

    Per GC77

    Cara GC, la cosa più importante dell’articolo il prof, come fa spesso, la mette nell’ultima frase ossia quando dice che bisogna a pensare a un alleanza di quelli “con” il futuro.
    Le critiche piene di passione che rivolgi all’Europa dei banchieri e dei burocrati devono sostanziarsi in un programma che per adesso non può essere l’uscita dall’euro; la gente non capirebbe e per rendertene conto ti invito caldamente a partecipare a una riunione di qualche gruppo di grillini del Movimento 5 Stelle (preparati a sentirne di tutti i colori…).
    Di concreto bisogna prima ricreare una coscienza civile e un senso di appartenenza fra i cittadini che vogliono essere consapevoli e partecipi alla vita politica nazionale e continentale quindi a mio avviso il “concreto” tentativo di mettere su un’alleanza di paesi come dice il prof è una strada forse meno immediatamente gratificante del dire “fuori dall’euro”, forse più faticosa e impegnativa ma sicuramente più costruttiva politicamente sia sul breve che sul lungo periodo, sia sul piano della proposta di politica economica che su quello della formazione (finalmente) di un autentico popolo in Italia e in Europa.

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    • Avrei dovuto mettere la nota sotto il grafico: “Switzerland and Belgium have significant within-country FTR variation; for simplicity they are shaded according to their majority-FTR status. Ne tiene conto per il Belgio e la Svizzera in tutte le regressioni. L’effetto non è via media: i dati che ho messo sono quelli più semplici da riassumere per le nazioni, ma ha dati enormi su individui singoli.

      Reply
  3. “Di conseguenza le faccio osservare che un futuro europeo in lingua inglese determinerà la scomparsa di tutte le culture nazionali europee. In pratica siamo già morti.”

    Questa non l’avevo letta.
    È il contrario per la verità, la diffusione dell’inglese non pregiudica in alcun modo la vitalità della lingua locale e anzi il bilinguismo sarebbe un grande vantaggio culturale per i paesi non anglosassoni.
    La decadenza dell’italiano non dipende in alcun modo dall’inglese ma sono discorsi un po’ complessi.

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    • Non credo Marco. E’ vero è complesso ma credo che ci sia di che giustificare una lotta per mantenere l’investimento nella conoscenza delle lingue senza abbandonare la dominanza della propria.

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      • E certo, ma per adesso non ho ancora letto di qualcuno che affronti il problema della decadenza dell’italiano in un modo che non sia piattamente convenzionale. La prova di quello che dico è l’effettivo degrado della nostra lingua nonostante ce ne si lamenti da decenni.
        Inoltre nella mia esperienza nei paesi bilingui con programmi di studio abbastanza seri il livello culturale delle persone è più elevato (un esempio è il Ghana con twi e inglese nella zona di Accra).
        C’è però molto da dire e spero che se ne parlerà a una assemblea

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