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I Had a Dream, Detroit

Dal banchiere Gerontius in vacanza nelle vicinanze di Detroit  ricevo e volentieri pubblico.

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I have a dream this afternoon that one day right here in Detroit, Negroes will be able to buy a house or rent a house anywhere that their money will carry them and they will be able to get a job. [Applause] (That’s right)

Detroit, 23 June 1963.

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Non ci sono dubbi. Non possiamo che essere nelle vicinanze della “Motor City”. Ci sorpassano continuamente scintillanti auto d’epoca, Mustang degli anni 60, “convertible” Cadillac degli anni 50, guidate da fieri e orgogliosi proprietari. La storia dell’auto e la storia di Detroit sono inseparabili e gli appassionati di macchine d’epoca che da questi parti non mancano sono qui a testimoniarlo. Il nostro ospite ci porta a Downtown Detroit. Siamo a pochi passi dal Renaissance Center, quartier generale della General Motors, una delle “Detroit Three”, le altre due sono naturalmente la Ford e la Chrysler.

E’ difficile immaginarsi cosa possano pensare i loro fondatori, William Durant, Henry Ford e Walter Chrysler, dall’alto del cielo, delle ultime vicende delle Big Three. Un salvataggio da parte del governo statunitense e canadese che complessivamente ammonta a circa 95 miliardi di dollari. La General Motors è oggi controllata al 75% dal governo americano e canadese e per il 17% dai dipendenti. La Chrysler ha come azionisti  per il 10% i due governi del Nord-America e per il 20% la Fiat. In contropartita del salvataggio sono stati chiusi numerosi luoghi di produzione e persi migliaia posti di lavoro e i sindacati hanno fatto concessioni in termini di flessibilità e costo del lavoro. Si, perché le Big Three si distinguevano in passato anche per un modello organizzativo altamente sindacalizzato che aveva garantito salari e benefici più elevati rispetto alla competizione. I lavoratori non sindacalizzati della Toyota sulle linee di produzione per esempio guadagnavano in media negli Stati Uniti dal 15 al 20%  in meno. La crisi ha riequilibrato queste differenze.

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Percorrendo le strade della Downtown si vedono molti locali chiusi ma allo stesso tempo si possono vedere anche attività che hanno aperto da poco. Ci dicono che questa è l’unica parte della città che si può percorrere a piedi in sicurezza.  Il 90% della popolazione di Detroit è afro-americana e una grossa porzione di questa vive in condizione di precarietà nella cintura intorno a Downtown.

Ci spostiamo a Greektown dove oltre dieci anni fa fu permesso di aprire tre casinò per contrastare la concorrenza della vicina città canadese di Windsor, famosa per le sue sale da gioco.  Detroit e Windsor sono separate da un canale e unite dal ponte Ambassador. Prima che aprissero i casinò a Detroit gli americani ogni sera migravano in massa per andare a giocare a Windsor. Per rendere più vivibile il centro della città è stato bonificato anche il fronte-canale una volta adibito ad usi commerciali e adesso trasformato in un piacevole camminamento che unisce il Reinessance Center con una piazza con anfiteatro dove si organizzano eventi musicali.

Nel nostro peregrinare senza metà ci troviamo davanti a Comerica Park, il suggestivo stadio dei Detroit Tigers in questo momento una delle più forti squadre della Major League di baseball.  I Tigers sono di proprietà di Mike Ilitch, come peraltro lo sono i Detroit Red Wings della Lega Nazionale di Hockey e anche molti dei palazzi storici che circondano Comerica Park. Ilich è un miliardario di origini macedoni che ha fatto fortuna vendendo pizza in tutta l’America  attraverso la catena Little Caesars Pizza.  Qui se ne parla come del vero padrone di Detroit. Gli interessi della famiglia si estendono oltre alle squadre sportive, ai casinò ed al settore immobiliare. Vicino a Comerica Park nella zona di Midtown si possono vedere lussuosi palazzi residenziali in costruzione destinati a giovani professionisti che stanno lentamente ripopolando la parte centrale della città.

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Siamo ormai arrivati vicino alla cintura che non si può più attraversare a piedi. E’ d’obbligo utilizzare l’auto e rimanere nelle strade di maggior scorrimento. Non ci vuole molto per rendersi conto del lungo declino che sta colpendo da decenni questa città. Si vedono imponenti cattedrali vicino a zone residenziali semideserte, una volta abitate dalla middle class: palazzi destinati ad uso pubblico abbandonati. Interi palazzi residenziali vuoti. Zone che sono state completamente de-urbanizzate e zone in cui si è raccolta di nuovo la gente.  Per le strade solo afro-americani.  Negli anni 50 la popolazione di Detroit era intorno a 1.8 milioni. Si stima che oggi superi di poco i 700.00 abitanti. I sociologi chiamano questo fenomemo “urban decline.” La crisi del 2008-10 e l’alta disoccupazione hanno esacerbato questo fenomeno. La popolazione bianca e la middle class si sono spostate nelle città limitrofe e Detroit è rimasta in mano al crimine e ai cani randagi che si dice siano più di 20mila. I valori delle proprietà si sono annullati o fortemente depressi. La base imponibile si è irrimediabilmente ridotta. Nel 2011 più della metà dei proprietari di case non hanno pagato le tasse causando una forte perdita di entrate per la città. Il marzo scorso lo Stato del Michigan ha nominato un commissario per la gestione straordinaria della città e a luglio la Città di Detroit ha portato i libri in tribunale per iniziare la procedura fallimentare.

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Basta uscire dalla Città di Detroit ed entrare nelle città limitrofe e la situazione cambia drasticamente. Qui vivono i white collars e anche i blue collars più fortunati che hanno mantenuto il posto di lavoro. Le città sono ordinate, ci sono grandi spazi comuni per le attività sportive, scuole ben organizzate. I bambini che nascono in queste aree potranno dedicarsi allo sport che preferiscono (soccer, baseball, football) e avranno accesso gratuito a scuole pubbliche di prim’ordine. I bambini che nascono nei quartieri di Detroit avranno invece una chance di potersi iscrivere ad una “high school” pari a quella di finire in prigione. E questa non è una battuta, ma il risultato di un recente studio.

L’America ha dimostrato di avere una grande capacità di reagire alla crisi usando in maniera estensiva la mano pubblica quando è stato necessario, ma i benefici di queste azioni non si estendono a tutti. Ci sono settori della società che non sembrano trarne nessun beneficio, in particolare la popolazione afro-americana. C’è da chiedersi perché non si sia intervenuti per tempo per evitare o mitigare il disastro della città di Detroit.  Detroit è la città dove cinquanta anni fa Martin Luther King anticipò il discorso di agosto “I have a dream” presso il Lincoln Memorial di Washington facendone “le prove generali” a giugno a Detroit. A quanto pare non basta nemmeno un presidente afro-americano perché quel sogno diventi realtà.

Gerontius

3 comments

  1. leonardo quagliata

    23/08/2013 @ 09:31

    Caro il mio Gerontius,
    fare del bene è difficile per tanti motivi (a volte non è neppure ben chiaro quale sia la cosa giusta da fare); ma, per non cadere in un pessimismo leopardiano, occorre ricordarsi di esaminare comparativamente la situazione attuale con quella di 50 anni fa e, magari, di 100 anni fa, per vedere (anche) i miglioramenti che hanno influito sui ceti meno abbienti e diminuito le forti diseguaglianze sociali (che, purtroppo, ci sono sempre state).
    In ogni caso, mi piace ricordare un detto di un monaco del medioevo: 1) quello che puoi fare fallo; 2) per quello che vorresti fare ma non sei in grado di fare, se credi, prega; 3) del resto non ti curare.

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    • Caro Leonardo

      credo che qui il pessimismo o l’ottimismo c’entrino ben poco. 50 anni fa Martin Luther King tenne al Lincol Memorial a Washington quello che è considerato uno dei discorsi più importanti nella storia dell’umanità. In uno dei passaggi più significativi affermava: “L’America ha dato al popolo negro un assegno non buono che è tornato con la scritta “fondi insufficienti”. Ma noi rifiutiamo di credere che ci siano fondi insufficienti nei grandi forzieri dell’opportunità di questa nazione. Così siamo venuti a riscuotere questo assegno – un assegno che ci darà su richiesta le ricchezze della libertà e la sicurezza della giustizia”. Quello che Martin Luther King chedeva era parità di opportunità tra bianchi e neri oggi considerato dai filosofi uno standard “minimo” di giustizia. In 50 anni sono stati fatti grandi passi avanti come tu ricordi, ma purtroppo continua a persistere un forte “gap” di giustizia tra bianchi e neri. Alcuni fatti parlano da soli. Il tasso di disoccupazione dei neri è sempre stato negli ultimi 50 anni doppio rispetto a quello dei bianchi. La ricchezza netta media di una famiglia bianca (propietà più ricchezza finanziaria) è di circa 110mila dollari, quella di una famiglia afro-americana è di circa 5mila dollari. Forti discriminazioni restano nell’accesso all’educazione e la segregazione non è scomparsa. Il 75% dei bambini bianchi frequentano scuole dove ci sono solo bambini bianchi, mentre il 40% dei bambini neri frequentano quelle in cui ci sono solo neri. E’ difficile immaginare che queste differenze così eclatanti non siano riconducibili alla mancanza di una giustizia intesa come parità di opportunità. In questo senso molta strada ancora deve essere fatta nel disegno della società americana Non credo però che tutto sia riconducibile alla politica o alla mancanza di una volontà politica di ridisegnare il modello americano in una direzione di maggiore giustizia. Il permanere di certi meccanismi di discriminazione funzionano anche a livello incoscio nei comportamenti degli individui e ci vuole molto tempo per superarli.

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  2. Guardare come guarda Gerontius è un dovere per un individuo che voglia comprendere i propri sentimenti e il valore dei suoi ragionamenti.
    Gerontius ha il dono della vista.
    Dovremmo con convinzione smettere di attraversare la vita come sonnambuli e cominciare ad osservare in modo diverso la realtà intorno, meno superficialmente.
    Indagare su ciò che vediamo e domandarci perché, fino a quando non riusciamo a guardare meglio più in profondità e individuare quali verità ci influenzano, per capire se anche noi inconsapevolmente possiamo contribuire in qualche modo al problema e all’ingiustizia.
    Faticoso? Sì, ma cominciare a farsi domande per un essere umano è un qualcosa che vale la pena di fare.

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