Oggi sul Sole 24 ore
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Ci si scandalizza che il Governo abbia portato all’interno del Documento di Economia e Finanza per il 2024-2027 un orientamento di politica fiscale in cui sono assenti le c.d. variabili “programmatiche”, che danno conto delle intenzioni del Governo, lasciando che siano le tendenze naturali a legislazione vigente a determinare cosa avverrà in futuro nel nostro Paese, una sorta di viaggio alla deriva senza timoniere.
In realtà, le cose non stanno così e lo si capisce adottando una duplice prospettiva. La prima è che si può argomentare, e il Governo lo ha fatto, che questo tendenziale non sia nella sostanza altro che la riproposizione del programmatico inserito nella Nota di aggiornamento al DEF del 2023, e dunque in realtà una espressione di forte volontà dell’esecutivo di confermare un “DNA” di intenti per quanto riguarda la sua politica economica. Effettivamente alcuni numeri confortano questa interpretazione: il deficit su PIL per il 2024 è confermato al 4,3% mentre il debito sul PIL al 2026 è confermato a livelli leggermente inferiori al 140%. Due dati, aggiungiamo, che sminuiscono l’allarme ripetutamente segnalato di conti pubblici devastati dalle dinamiche di spesa legate all’ecobonus. E va anche detto che il Governo ha dati credibili per comprovare questa sua convinzione: in fondo lo spread dei titoli di stato italiani è stato raramente così basso negli ultimi 10 anni, a controprova che i mercati paiono quanto mai tranquilli sul merito di credito della nostra Repubblica.
La seconda ragione per cui si può francamente obiettare ai detrattori dell’attuale DEF attiene a una prospettiva diversa da cui guardare al piano pluriennale presentato. In effetti si potrebbe anche dire che, a ben cercare, un programmatico, specie per l’anno a venire, il 2025, c’è. Il Governo ha aggiunto all’interno delle centoventi pagine uno scenario “a politiche invariate” che si differenzia da quello tendenziale perché comprende cosa avverrebbe alle dinamiche fiscali nel caso in cui le politiche del Governo espresse per il 2024, come la riduzione del cuneo fiscale e la riduzione delle aliquote connesse alla riforma fiscale, fossero confermate per il 2025. Questo desiderio di rinnovare queste politiche costerebbe circa l’1% di PIL, portando il deficit su PIL del 2025 dal 3,7% previsto dal tendenziale al 4,7%, accompagnato sì da una maggiore crescita economica che deriverebbe da questa politica espansiva, ma pur sempre un valore di deficit su PIL superiore a quello promesso per il 2024, il 4,3%. Questa prospettiva aiuta a comprendere anche le vere ragioni governative per evitare di formalizzare questo scenario a politiche invariate, facendolo diventare un vero e proprio “programmatico” a cui impegnarsi: dove trovare l’1% di PIL di risorse per farlo, in assenza di possibilità di finanziarlo in deficit per il veto che riceverebbe dalla Commissione europea, se non con maggiori altre tasse e minori spese e dunque in assenza di addizionale crescita? E come pensare che a pochi mesi dalle elezioni europee sia possibile esporsi in tal senso durante una campagna elettorale delicatissima?
Giustificato in parte il Governo, resta un fatto: che questa cornice istituzionale di politica fiscale europea e la sua interpretazione italiana non risolveranno mai il problema di sviluppo economico dell’Italia né di quella sua stabilità così spesso sollevato dall’Unione europea.
Lo testimoniano i numeri contenuti nel DEF, in cui il Governo promette al massimo una crescita dell’1% (0,7% secondo la Commissione europea) per quest’anno e dell’1,2, 1,1 e 0,9% per il successivo triennio: numeri troppo modesti per cominciare a recuperare il nostro ritardo di sviluppo accumulato in questo ultimo ventennio in Europa, ma anche troppo fiacchi per incidere sul rapporto debito-PIL per il tramite del denominatore, come da più parti si auspica.
Sono numeri che nella loro mancanza di ambizione sollevano un ulteriore quesito, visto che quelli considerati sono gli anni centrali in cui dovrebbe esplicarsi pienamente la messa a terra del PNRR, ad oggi fermo a circa un quinto dell’utilizzo per la carenza di disponibilità di capitale umano all’interno delle nostre stazioni appaltanti. Come è possibile spiegare questa mancanza di crescita tra 2024 e 2027?
Non è troppo difficile dare una risposta a questa domanda: basterà guardare all’incredibile serie di valori – pretesi dal nuovo Fiscal Compact europeo – dei deficit su PIL dei prossimi anni: da 7,2% del 2023 al 4,3% di quest’anno fino al 2,2% del 2027 (in omaggio alle nuove regole austere e sospettose del nostro Paese che chiedono di scendere non più al 3% ma all’1,5% di deficit-PIL!). Un piano di 5 punti percentuali in meno di sostegno all’economia in 4 anni, circa 20 miliardi l’anno di maggiori entrate e minori spese, che non può che scoraggiare qualsiasi imprenditore dall’investire, in un lustro decisivo per il futuro geopolitico del nostro continente.
Chi è causa del suo mal pianga se stesso, verrebbe da dire. Ma uno sforzo serio di vera spending review fatta di investimenti in capitale umano per le nostre stazioni appaltanti potrebbe costituire la soluzione: per avviare sia la ripresa della messa a terra del PNRR che quella della fiducia europea nelle nostre capacità di spendere bene.
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