Dall’ultimo numero di Formiche.
L’inflazione, quanto crescono i prezzi in un determinato periodo in un determinato Paese, è oggetto di scelta da parte di chi ha il potere di influenzarne in maniera sostanziale l’andamento. Anche quando i prezzi salgono a causa di fattori esterni e globali (come attualmente sta avvenendo a causa di vari fattori come uscita dalla pandemia, rincaro energia, strozzature delle catene mondiali di fornitura), e superano certe soglie tradizionalmente gradite o predeterminate (come il 2% nell’area dell’euro), le autorità monetarie (come la BCE) possono generalmente mettere in moto azioni per ricondurle a quei valori. In realtà, gli stessi governi e i partiti possono giocare un ruolo determinante nel determinare il livello dell’inflazione, anche in un mondo come il nostro dove siamo ormai abituati a ritenere che le banche centrali siano indipendenti e possano essere immuni da pressioni politiche esterne. Non è così: i banchieri centrali ascoltano i Governi e la politica, anche se fanno finta di non farlo, altrimenti farebbero perdere alla loro istituzione la loro ragione di esistere, al di là di rischiare personalmente il posto. E allora la domanda è chiave: qual è il livello ottimale di inflazione a cui dovremmo aspirare, particolarmente in un momento così e unico e delicato come l’attuale, dominato dal virus Covid-19? Un economista per rispondere guarderebbe ai costi ed ai benefici di un certo livello inflazione, per individuare infine quello che massimizza i guadagni netti per la società.
I costi dell’inflazione sono noti. Furono ripercorsi in maniera magistrale dal premio Nobel Franco Modigliani e dal collega Stanley Fischer in un loro celeberrimo lavoro del 1978: la logica non è cambiata da allora. Di fatto, l’inflazione fa tanto più male quanto più è alta o imprevedibile (e tanto più è alta tanto più imprevedibile diviene) e può avere effetti particolarmente dirompenti, in senso sia positivo che negativo, quando è inattesa, sempre che gli operatori non si siano protetti da queste variazioni inattese dei prezzi ricorrendo a meccanismi di indicizzazione, come quelli dei salari negli anni 70 o, più recentemente, dei titoli di stato. Dunque, idealmente, un’inflazione moderata, se mantenuta tale agli occhi degli operatori economici, e parzialmente inattesa può rivelarsi positiva per un dato paese in un determinato momento se i suoi benefici potessero dimostrarsi particolarmente vantaggiosi rispetto ai suoi (contenuti) costi.
Deve essere questo il contesto che ha caratterizzato finora gli Stati Uniti di Biden, dove si è deliberatamente voluto lasciar crescere i prezzi a ritmi mai visti da 40 anni a questa parte, che rasentano ormai la soglia del 7% annuo. Un livello che il Governo americano deve aver ritenuto ottimale, visto che solo ora le prime perplessità su ulteriori aumenti paiono ottenere un certo ascolto e che dunque solo da ora in poi è lecito attendersi una qualche reazione da parte della Fed statunitense per arrestarne una ulteriore crescita.
Quindi la domanda più appropriata dovrebbe essere: dove sono tutti questi benefici che questa inflazione ha consentito, tali da far sì che il Presidente Biden ed il Presidente della Fed Powell non abbiano sentito la necessità di interrompere la crescita dei prezzi, pur certamente in qualche modo costosa? La risposta è semplice. Questa inflazione americana così alta è figlia di altre scelte di Biden, che hanno portato i prezzi americani a crescere, ad esempio, ben più di quelli dell’area dell’euro, anche a parità di cause globali come quelle menzionate sopra. Quali scelte? Beh, in realtà una sola: quella di sospingere la domanda di beni, servizi, e lavori pubblici per il tramite di una politica fiscale ampiamente in deficit, a livelli decisamente superiori a quelli europei (10,5% del PIL rispetto al 3,5%). Perché? Semplice, per venire incontro alle esigenze della fascia più debole della popolazione con manovre che permettono la loro occupabilità e dignità in un momento difficile, facendo sentire la presenza della politica vicino a loro. E di nuovo: perché? Perché Biden sa bene qual è lo spettro che deve combattere: quello (come Roosevelt negli anni Trenta) della minaccia alla democrazia che Trump, potenziale candidato alle prossime elezioni, costituisce.
In Europa l’inflazione è decisamente più bassa che negli Stati Uniti perché la politica fiscale è molto meno espansiva. E lo è perché si percepiscono come decisamente inferiori i vantaggi di queste manovre in deficit. Mi direte, è giusto, noi non abbiamo Trump! Falso, noi abbiamo ancora viva e vegeta un’enorme minaccia, quella sovranista, al nostro progetto europeo e l’unico modo per cancellarla sarebbe fare quello che ha fatto Biden: ben di più di quanto non stiamo facendo con il Recovery Plan, investire ancora, in deficit (abbattendo con essa il rapporto debito-PIL tramite la crescita) facendo sì aumentare i prezzi europei al di sopra del famigerato 2% (per la prima volta) ma, a fronte di costi leggeri assai, avremmo il potere di consolidare – grazie alla maggiore occupazione ed al consenso che si creerebbe attorno ad essa- la costruzione della casa europea per le nostre future generazioni, mettendole al riparo di nuovi conflitti interni, che mai potranno sopirsi del tutto in assenza di una vera unione europea: un beneficio “dell’inflazione” di dimensioni straordinarie.
L’inflazione europea merita di crescere, perché l’Europa merita finalmente di crescere e così debellare il virus del pessimismo che la pervade ormai da più di 10 anni.