Oggi sul Sole 24 Ore.
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Sembra crescere all’interno dell’Europa la presa di coscienza che le politiche fiscali perseguite sinora nell’era post-Covid siano eccessivamente austere rispetto alle esigenze esistenziali (aggettivo adottato da Mario Draghi nel suo Rapporto) del Continente. I fattori determinanti di questo cambio di atteggiamento sono dovuti all’evidenza ormai irrefutabile che Cina e Stati Uniti crescono, a ritmi decisamente superiori a quelli europei, per il tramite di politiche fiscali espansive basate su maggiori investimenti pubblici finanziati con ampi deficit e, in aggiunta, approvate dai mercati finanziari. A questa si sommano i sempre più fragili equilibri politici di Francia e Germania, oggi in chiara difficoltà economica e alle prese con una crescente opposizione interna da parte di partiti estremisti che cavalcano le conseguenze negative dell’austerità, fomentando lo scetticismo e/o il populismo sovranista.
Il timing di questa tutta nuova sensibilità espansiva stride in maniera alquanto clamorosa con la (da poco approvata) nuova costituzione fiscale dell’Unione europea (Ue), che ribadisce l’esigenza di un austero rientro fiscale a breve e medio termine, ma tant’è. A chi non crede a un prossimo rovesciamento di 180 gradi di quelle politiche austere approvate solo pochi mesi fa andrebbe tuttavia risposto come la riforma del Patto di Stabilità sia stata adottata nell’epoca “Ante Trump”, cioè un’era geologica fa. Ora, nell’era Trump, tutto è lecito, compresa una completa rivalutazione di cosa debba fare la politica fiscale europea per proteggere il nostro continente già in difficoltà all’interno del nuovo paradigma di autonomia atlantica in cui l’Europa dovrà navigare e in cui dovrà gestire come minimo l’impatto negativo di barriere protezionistiche al nostro export e di un disimpegno dal fronte ucraino da parte degli USA. Una politica fiscale europea espansiva che stimoli la domanda interna appare dunque come inevitabile. E’ necessario tuttavia anche dibattere su due ulteriori temi chiave: 1) espansiva sì, ma come? e 2) espansiva sì, ma per il tramite di chi?
Per rispondere al “come” abbiamo ora a disposizione un interessante tentativo di riforma che merita la nostra attenzione, come ha fatto notare di recente lo stesso Draghi: quello del nuovo governo laburista britannico, mirato a raggiungere un bilancio di parte corrente in pareggio e un deficit che finanzi ampi investimenti pubblici di qualità volti, per il tramite del maggiore PIL generato, anche a ridurre il rapporto debito-PIL. Il bilancio corrente in pareggio verrebbe raggiunto alzando le tasse, per non abbattere la spesa sociale sapendo bene che finanziare scuola, università, ospedali e sicurezza è in realtà spesa per quel capitale umano che garantisce progresso, sviluppo e coesione sociale di un Paese. Questa dovrebbe essere anche la nostra nuova Costituzione fiscale europea espansiva: avrebbe tutto il potenziale per essere capace di restituire entusiasmo per l’Europa a imprese e cittadini.
Resta tuttavia aperto un ultimo punto. A chi dare in mano la realizzazione di questa nuova politica fiscale espansiva? Il Regno Unito è fuggito dall’Ue per poterla realizzare in autonomia. A noi che nell’Ue siamo rimasti, credendoci, spetta invece di decidere se delegare questa politica a sostegno degli investimenti pubblici a Bruxelles, con debito europeo, o farla fare in autonomia a ognuno degli Stati con debiti nazionali. Ambedue le soluzioni sono possibili: la somma complessiva da finanziare sarebbe infatti uguale. A favore della prima ci sarebbe l’evidente capacità di centralizzare in Europa i progetti, ottenendo economie di scala e coordinamento più efficace. A favore della seconda soluzione spingerebbero invece sia le evidenti ritrosie di ogni Stato membro a delegare all’Europa autonomia decisionale che l’urgenza di procedere con la spesa.
In effetti, l’impossibilità di immaginare che i singoli Stati membri si accordino con la necessaria rapidità per lasciare all’Ue il pallino del comando ci fa propendere per il finanziamento degli investimenti con deficit nazionali: il tempo dell’attesa si è esaurito. E dunque, paradossalmente, per salvare l’Europa non bisogna più tanto temere i sempre più isolati “ortodossi austeri”, quanto gli europeisti a oltranza che, pur di non avere debiti nazionali per finanziare lo sviluppo ma solo debiti europei, rischiano di far morire un’Europa che, in questo momento, prima ancora che di ideali lontani ha bisogno di concretissimi sostegni e aiuti per chi soffre e per chi vuole crescere investendo per il futuro del nostro Continente.
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