Ieri sul Foglio, a firma di:
Alberto Amaglio, Giulio Citroni, Stefano Clò, Anna Giorgi, Gustavo Piga, Giulio Sapelli .
*
Caro Direttore,
il dibattito pubblico di queste settimane ha riportato in auge interrogativi, riflessioni e polemiche sul perimetro e le modalità della presenza dello Stato nell’economia. A chi scrive, questo pare un cambiamento significativo del sentire comune dopo alcuni decenni durante i quali ai processi economici controllati dal pubblico è stata attribuita un’aura negativa. Si è detto e scritto, da più parti, di come e quanto il pubblico fosse geneticamente caratterizzato da alti livelli di burocratizzazione, poca meritocrazia, anti-economicità ed inefficienza, colonizzato da una “casta” di dirigenti, funzionari e amministratori nullafacenti o, peggio, asserviti a questo o quell’interesse di parte. Di contro al libero mercato e all’iniziativa dell’impresa privata vocata al profitto è stato attribuito il carisma di dinamicità, efficienza e innovazione. Insomma, a ragione o torto che fosse, lo Stato, si è detto, meno si occupa di economia, meglio è per il Paese, dimenticando che il fine ultimo delle riforme è l’efficienza e il miglioramento della qualità dei servizi.
Un clima di opinione che, lungi dall’essere rimasto solo parola scritta, ha generato le scelte di politica economica – sostenute per il vero da pressoché quasi tutto l’arco costituzionale della seconda repubblica – che oggi vengono da più parti messe in discussione. Le privatizzazioni di grandi imprese statali, la nascita del sistema concessorio dei servizi pubblici, anche quelli in monopolio naturale, la riduzione del perimetro di azione dello Stato nell’economia e nella società, sono solo alcuni esempi dei frutti del declino distorto della reputazione del “pubblico” a favore del “privato”, a cui va aggiunta la non secondaria spinta del crudo dato di bilancio che “obbligava” alla riduzione, anche rapida, del debito dello Stato piuttosto che alle ben più importanti liberalizzazioni che avrebbero potuto vedere pubblico e privato affrontarsi e sfidarsi. Nel mentre, sempre a causa del mix di ideologia privatistica e di carenza di risorse, gli enti locali sono stati lasciati a se stessi e molti dei più piccoli e precari hanno perso la capacità di gestire in proprio i servizi senza nemmeno acquisire la capacità di controllare efficacemente le gestioni esternalizzate.
Oggi siamo senza dubbio di fronte a un mutamento di paradigma, solo apparentemente conseguenza dei recenti fatti di cronaca. Con diverse sensibilità, anche le forze politiche esprimono riserve e critiche rispetto al percorso di privatizzazioni che i governi italiani ed europei hanno realizzato nel corso degli ultimi decenni. D’altronde il ritorno dello Stato nei processi industriali è un fenomeno che globalmente sta dando notizia di sé, da prima dell’inizio della crisi finanziaria. Dal 2000 al 2015 vi sono stati, ad esempio, 235 casi di ritorno alla gestione pubblica del servizio idrico integrato in 37 Paesi e per oltre 100 milioni di abitanti in ragione dei bassi investimenti della gestione privata e dell’aumento dei prezzi. Lo stesso fenomeno ha interessato i rifiuti, l’energia, i trasporti, la sanità in Paesi come Germania, Giappone, Svezia, Francia, Regno Unito. Il numero delle imprese controllate dallo Stato presenti nella lista di Fortune delle 500 migliori aziende quotate del mondo è raddoppiato dal 2005 al 2014.
Ciò che ci pare degno di nota è che dal dibattito di queste settimane sono del tutto assenti alcuni interrogativi che ci sembra essenziale porre. Quando si parla – bene o male poco importa – di ritorno al pubblico dei servizi di interesse generale, ci si dovrebbe prima di tutto chiedere quale modello di azienda pubblica abbiamo in mente. Una società per azioni quotata in borsa ma con un azionista pubblico di riferimento? Una spa non quotata e che reinveste i suoi profitti? Una società semplicemente not for profit? Un’azienda speciale, che ricade interamente nel diritto pubblico? Si tratta di modelli molto diversi tra loro e con grande probabilità adatti a svolgere funzioni diverse.
Chi scrive ha da tempo superato l’idea che ci sia una contrapposizione tra pubblico e privato intesi come modelli incompatibili e, di più, siamo convinti che l’impresa pubblica sia stata troppo frettolosamente archiviata, cedendo a luoghi comuni e generalizzazioni e, soprattutto, senza avviare rigorosi processi di controllo, valutazione ed eventuale revisione organizzativa e funzionale finalizzati all’incremento dell’efficienza. Parlare di impresa pubblica oggi è, infatti, cosa diversa rispetto a vent’anni fa. Ma di certo non siamo pronti a scadere nell’ingenuo refrain del “pubblico è bello”, se non fosse per il semplice fatto che la gestione interamente pubblica e sottratta alla concorrenza, alla trasparenza e all’accountability è un’esperienza che in Italia ha avuto spesso risultati economicamente insostenibili. Per questo accogliamo con entusiasmo il ritorno, già in atto da tempo in accademia, di una riflessione laica e differenziata per settore e contesto sulla migliore gestione industriale dei beni e servizi di pubblico interesse, sempre che questo ritorno non sia la riproposizione stantia di stagioni passate e vecchi paradigmi, ma faccia invece leva su dati, buone esperienze e buone idee che in Italia e all’estero ci sono, anche se poco note.
Interroghiamoci allora, caro direttore, e apriamo un dibattito serio su come dare vita a un sistema economico in cui, a prescindere dalla natura proprietaria, i gestori di servizi pubblici possano essere misurati in termini di efficienza, affidabilità del servizio, qualità, equità, trasparenza, sostenibilità, accessibilità. In cui i manager pubblici siano selezionati e la composizione della governance individuata attraverso criteri di merito e di mercato e sia sempre il mercato, come accade per i manager che lavorano per le imprese private, a decidere quanto sia giusto e utile pagarli. In cui lo Stato possa esercitare rigorose funzioni di controllo davvero consapevoli dei processi in atto, tramite l’attrazione e il trattenimento di personale competente ben remunerato ed incentivato, anche grazie ad un sistema di valutazione efficace, che premi merito e risultato secondo indicatori oggettivi e misurabili. Uno Stato in cui la partecipazione dei cittadini alle decisioni aziendali non sia un grimaldello ideologico ma venga valutata nei modi e nella sostanza a partire dalle esigenze legate alla natura dell’azienda e del business. Sono, queste, solo alcune delle domande su cui occorre dare risposte non reticenti e aprire un franco dibattito – proprio su un giornale che ha accolto interventi spesso avversi a questo tipo di orientamento – che dia indicazioni di metodo e di merito sulle modalità della presenza del “Leviatano” nel mondo di oggi.
17/11/2018 @ 13:34
Mi sembra che si scopra l’acqua calda…per farla breve, tra il modello (liberista)inglese e quello (statalista) francese, il dibattito teorico e politico è da sempre aperto e non mi pare ci sia alcun notevole cambiamento di paradigma…a meno che non si voglia attribuire al nuovo esecutivo una qualsivoglia strategia in tal senso o un briciolo di lungimiranza che non sia meramente poltronistico…