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Appalti, province capofila

Oggi sul Sole 24 Ore il mio articolo con Gaetano Scognamiglio.

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Va nella direzione di provare a razionalizzare il sistema degli appalti pubblici a livello locale il comma 4 dell’art. 16 della Legge di Bilancio 2019, che modifica l’art. 37 del Codice appalti stabilendo, che – in attesa (da quanto tempo ormai!) della qualificazione delle stazioni appaltanti – le province e le città metropolitane operino obbligatoriamente come centrali di committenza di lavori pubblici per tutti i comuni non capoluogo afferenti alla provincia stessa  o alla città metropolitana.

La soluzione, corretta e ispirata alla logica di valorizzare l’esistente, è altresì confortata dai risultati dello studio realizzato dall’Accademia per l’Autonomia in collaborazione con Promo PA Fondazione e l’Università di Roma Tor Vergata, che analizza  58 Stazioni Uniche Appaltanti (provinciali e di area metropolitana) e 865 Centrali Uniche di Committenza comunali, proponendo un  modello organizzativo nel quale  Comuni, Province, Città Metropolitane e Regioni possano individuare, all’interno di una stessa area territoriale, ambiti di complementarietà  e specializzazione e dove le province si configurano come centri strategici di aggregazione e di innovazione nel sistema degli acquisti a livello locale.  Così si andrebbe verso il raggiungimento di un duplice obiettivo: ridurre il grado estrema centralizzazione degli appalti dell’ultimo decennio che così tanto male ha fatto alle piccole imprese ed al loro potenziale di crescita ma al contempo garantire quella razionalizzazione (sinora mai avvenuta) necessaria tramite l’eliminazione di un numero congruo di punti ordinanti, in particolare quelli troppo piccoli quanto a volumi delle loro gare, che hanno il solo effetto di distorcere la domanda pubblica verso decisioni spesso poco coordinate con l’indirizzo generale di politica industriale per il Paese.

In mancanza di un quadro normativo chiaro sui livelli di qualificazione, che sperabilmente rivoluzioni anche le carriere del procurement officer e ne valorizzi le competenze acquisite sul campo anche con riconoscimenti pecuniari e di carriera, lo studio ritiene appunto auspicabile che sui territori i diversi soggetti possano trovare forme di collaborazione basate sulla capacità/possibilità di svolgere alcune funzioni piuttosto che altre e che, in particolare, “le Stazioni Uniche Appaltanti a livello di area vasta (Provincia o città Metropolitana) potrebbero puntare a un livello di qualificazione che le consentono di gestire appalti sopra una certa soglia e specializzarsi nella gestione di gare di lavori che per dimensione non sarebbero accessibili a enti locali di piccola-media dimensione”.

Infatti il comma 4 può aprire interessanti spazi di manovra nel momento in cui si stanno rilanciando gli investimenti pubblici con la possibilità, prevista dal ddl della finanziaria in discussione, di utilizzare liberamente gli avanzi di amministrazione appunto per investimenti, liberando risorse per decine di miliardi di euro. Il ruolo affidato alle province potrà dunque essere determinante, a patto però che si agisca sul versante delle competenze e delle risorse umane, indebolite dalla riforma Delrio, come dimostra un’analoga ricerca condotta sul tema sempre dall’Accademia per l’Autonomia. Gli uffici tecnici delle province vanno perciò messi in grado di far fronte alle nuove funzioni previste dal comma 4, nonché di predisporre in tempi rapidi i bandi necessari a sbloccare gli investimenti e realizzare le opere. E’ necessario pertanto da un lato, prevedere un processo di aggiornamento e formazione del personale delle province in materia di appalti pubblici e, dall’altro, reperire rapidamente nuove figure professionali da immettere nel sistema. Mentre sul primo punto esiste un’offerta formativa già presente e diffusa sul territorio, per la selezione d’ingresso è auspicabile pensare a concorsi a livello regionale, che possono rispondere in modo più efficace alle esigenze dei territori.

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