Ci siamo. Manca poco alla fine dell’era degli slogan di Renzi. Tra pochi giorni (due?) avremo il responso finale sul vero orientamento del Premier quanto a politica economica: con la nota di aggiornamento del Documento di Economia e Finanza (DEF) che sarà senza più alcuna ambiguità il “segno” del suo mandato per i prossimi 5 anni.
Se abbiamo dato retta a chi ci diceva di non giudicarlo dal DEF primaverile (“troppo presto, lasciatelo lavorare!”), malgrado l’assurdo contenuto di austerità che aveva, con il suo sussiegoso e montiano inchino all’ottuso Fiscal Compact, ora non ci sono più scuse: se scriverà per il Paese “austerità”, flessibile o meno, sarà da giudicare per quello che è, la continuazione in formato comunicativamente più piacevole dei suoi due disastrosi predecessori.
Nel rimanere in “trepidante attesa”, val bene ricordare al lettore, confrontandola con un appena sfornato lavoro scientifico nei quaderni della BCE di Francoforte, la posizione che abbiamo sempre adottato in questo blog, e la cui bontà è confermata dal lavoro in questione.
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Da sempre diciamo che: se ne esce solo con maggiori investimenti pubblici finanziati dal taglio degli sprechi di spesa pubblica in Italia. Per investimenti pubblici intendiamo non solo e non sempre le spese in conto capitale, ma anche stipendi più alti e posti per medici bravi, forze dell’ordine, ricercatori universitari e docenti scolastici di qualità, acquisti di beni e servizi ad alto contenuto tecnologico per ospedali e luoghi pubblici dove si effettuano attività altamente rilevanti per il Paese che necessitano, ad esempio, di ampia infrastruttura informatica. E così via. Per sprechi intendiamo acquisti ridondanti o non necessari e sprechi di prezzo, maggiore del dovuto.
Siccome l’individuazione degli sprechi è opera certosina che richiede essa stessa 1) investimenti in qualità del personale ispettivo – mai fatti (a Cottarelli non è stato dato personale, al Presidente dell’Autorità Anti Corruzione verranno tagliati i fondi di dotazione da 85 a 60 milioni) – ed in tecnologia – anch’essi mai fatti, come l’anagrafe unica per gli appalti pubblici che centralizzi i dati (non gli appalti, che altrimenti uccidiamo le PMI!) in tempo reale di chi compra cosa quando ed a che prezzo – e 2) tempi lunghi, abbiamo chiesto con la raccolta firme del referendum che si arrestasse la macchina folle del Fiscal Compact che forza coi suoi tempi isterici la mano di chi comanda verso il tagliare la spesa linearmente a casaccio senza se e senza ma. Abbiamo anche chiesto che il deficit pubblico fosse mantenuto al tre per cento del PIL senza ulteriori riduzioni, così da permettere tali investimenti subito e non dovere attendere che gli sprechi si trovino, contrariamente a quanto promesso con l’idiotico DEF di inizio anno firmato Renzi-Padoan, che prevede di ridurre il deficit in recessione di quasi quaranta miliardi di euro in tre anni.
Il progetto governativo che attendiamo con ansia di verificare se verrà confermato o meno con la Nota di Aggiornamento, prevede tra l’altro a tutt’oggi (oltre all’invarianza della pressione fiscale) la riduzione degli investimenti pubblici dal 2010 al 2018 da 51,8 a 41,5 miliardi, cioè una riduzione del 31,3% in termini reali (dati Ragioneria Generale dello Stato) portandoli al minimo storico come peso nel bilancio pubblico, allo 1,4% del PIL. A questo si somma il costante taglio in termini reali di occupazione e remunerazione per medici, ricercatori, giudici, poliziotti, maestri. Tutto richiesto dal Fiscal Compact, per abbattere il debito su PIL, che ovviamente invece cresce perché crolla la nostra capacità come sistema Paese di generare crescita via investimenti ed innovazione.
Abbiamo anche più volte sostenuto come all’interno di una strategia europea la spinta espansiva non doveva essere solo italiana ma in primis tedesca, così da massimizzare l’impatto sulle esportazioni reciproche e così da evitare le critiche che approcci unilaterali all’espansione fiscale da parte dell’Italia avrebbero generato aumenti di spread e peggioramenti della bilancia commerciale.
Keynesblog (http://keynesblog.com/2014/09/01/il-referendum-contro-lausterita-e-un-regalo-alla-germania-ma-anche-no/ ) aveva correttamente aggiunto nelle scorse settimane un ulteriore elemento decisivo per mostrare l’efficacia di questa strategia di rilancio europeo vietata dal Fiscal Compact e negata finora da tutti i Governi italiani (compreso il Renzi di aprile): che gli investimenti pubblici, agendo sulla produttività delle imprese italiane avrebbero ulteriormente spinto la crescita via export e competitività (in fondo spendere di più per scuole, ospedali, forze dell’ordine, tribunali, strade, ponti, parchi non fa altro che rendere più facile la vita alle imprese, giusto?). Lo insegniamo al primo anno di economia politica, ecco il grafico dal mio libro di testo, dove con maggiore domanda pubblica per investimenti (AD si sposta a destra) contemporaneamente si sposta a destra la curve di offerta, generando maggiore prodotto (le mele!) ed occupazione.
E a nulla serve ascoltare la litania di chi da un lato propone la spending review e dall’altro sostiene che aumentare gli investimenti pubblici equivarrebbe a sprecare risorse. Perché chi propone la spending review propone uno Stato che sappia mettere un alt agli sprechi e dunque che sappia spendere bene: altrimenti l’ipocrisia del ragionamento sarebbe evidente, o no?
Dopo aver detto per la millesima volta tutto ciò, in attesa di un Governo Renzi che traduca queste considerazioni in politiche economiche che impattino veramente su occupazione e crescita senza trastullarsi con riforme poco rilevanti che non danno sollievo ma solo visibilità, vediamo un po’ cosa dice il lavoro dei tre economisti che hanno pubblicato il loro lavoro nei quaderni della BCE.
http://www.ecb.europa.eu/pub/pdf/scpwps/ecbwp1727.pdf
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La sintesi del lavoro BCE: “ridurre la spesa per investimenti produttivi porta a perdite di prodotto sia nel breve che nel medio periodo. Inoltre, una riduzione della spesa per investimenti pubblici riduce nel medio termine la competitività estera di un Paese, confermando l’evidenza empirica degli studi esistenti riguardo all’impatto della politica fiscale sul grado di competitività internazionale. E ciò vale sia che i beni capitali pubblici siano importati o prodotti localmente. Siccome l’investimento pubblico ha effetti positivi sulla produttività del capitale privato, riducendo i costi marginali delle imprese, anche gli investimenti privati declinano nel medio termine se calano i primi. L’implicazione di policy chiave del nostro lavoro è che una riduzione della spesa per investimenti pubblici, malgrado sia spesso la prima componente di spesa pubblica che viene tagliata, ha effetti indesiderabili nel medio termine.”
E per chiunque fosse preoccupato che spingere sugli investimenti pubblici possa mettere in difficoltà la nostra bilancia dei pagamenti, i tre ricercatori hanno parole di conforto: “per il contenuto di importazioni negli acquisti ed investimenti pubblici ci basiamo su studi scientifici che affermano come lo sbilanciamento (bias) verso la produzione nazionale è più forte nella spesa pubblica che in quella privata” di circa il doppio, la quota di import toccando al massimo il 10-12% per la spesa corrente ed il 25% per quella in conto capitale.
Un aumento degli investimenti pubblici – nell’ipotesi estrema che il loro contenuto sia ad alto peso di importazioni (e non deve esserlo se ad esempio rimettiamo a posto tutte le nostre scuole dando lavori pubblici a tantissime piccole imprese italiane) – “inizialmente porterà ad un aumento di importazioni e ad un deterioramento della bilancia commerciale. Quando l’accumulazione di capitale avrà effetto, le esportazioni aumenteranno e la bilancia commerciale entrerà in surplus”.
Parola di BCE.
E che succede se un aumento di investimenti pubblici dello 1% di PIL è finanziato da tagli di sprechi? Di quella che è la proposta chiave contenuta nel nostro blog i ricercatori BCE non possono che ammettere la bontà: “nel medio termine, la bilancia commerciale migliora sostanzialmente, il PIL aumenta in maniera permanente dello 0,25% ed il debito pubblico comincia a diminuire con effetti tutti persistenti nel tempo, e tutto grazie all’aumento degli investimenti pubblici che porta ad una riduzione permanente dei costi aziendali”.
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E’ tempo di prepararsi. Non sarà convocata la segreteria PD per discutere della nota di aggiornamento del DEF, e questo fa francamente ridere dopo avere assistito ad uno scontro epocale per qualche centinaia di reintegri in meno o in più.
Ma non c’è dubbio che lo spartiacque sarà segnato tra chi predica contro l’Europa ma ne sottoscrive le logiche ottuse, portandola al suo disastro finale e chi ancora crede che la si possa salvare combattendo il Fiscal Compact e fermando questa macchina infernale.
Rien ne va plus, teniamoci forte.
01/10/2014 @ 05:04
Caro prof.Piega,
La risposta alle sue condivisibili proposte STS nell’endorsement ricevuto da Renzi da parte di Marchionne e Tronchetti. I grandi gruppi vogliono uno stato in austerità che chieda loro meno tasse e paghi loro gli interessi sui loro investimenti in titoli di stato ( ci mettiamo anche banche e assicurazioni). Vogliono uno stato che riduca le tutele ai lavoratori per poter ridurre loro gli stipendi. Loro pensano di guadagnare all’estero non in Italia. La Germania impone l’austerità perché conviene anche a questi grandi gruppi.