Oggi sul Sole 24 Ore.
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Mentre la politica monetaria dell’area dell’euro continua a esercitare la sua presa ferrea sull’inflazione, è dalla politica fiscale che l’Europa continua a non ricevere risposte in linea con i suoi obiettivi di crescita economica. La straordinaria divergenza di performance tra le due sponde dell’Atlantico, con gli Stati Uniti che nel quinquennio 2020-2024 crescono del quasi 10% a fronte del quasi 4% dell’area euro lo conferma: a parità di politiche monetarie restrittive, la politica fiscale espansiva di Biden, con deficit ampi a finanziare maggiori spese strategiche, è agli antipodi di quella restrittiva europea, che ha da poco riproposto un nuovo Patto di Stabilità austero fatto di crescenti riduzioni di deficit.
Il Governatore della Banca d’Italia nelle sue Considerazioni finali ha affermato come “in mancanza di avanzamenti verso una politica di bilancio comune, qualunque riforma che intervenga solo su politiche nazionali rischia di far apparire le regole europee sbilanciate verso il rigore e poco attente alle esigenze di sviluppo”, sottolineando di fatto l’attuale afflato austero della governance fiscale europea.
Le sue parole tuttavia sottendono due importanti presunzioni. La prima, quella che una politica di bilancio comune permetterebbe oggi al Vecchio Continente di adottare politiche fiscali analoghe a quelle degli Stati Uniti, espansive. E’ lecito dubitarne: in fondo i leader politici che dovrebbero procedere in questa direzione sono gli stessi che oggi la rinnegano per il tramite dell’austerità. Valga per tutti un’analisi lessicale del testo congiunto sul futuro dell’UE di Macron e Scholz: mentre termini come competitività e mercato vi abbondano (ne abbiamo contati 18!) mancano completamente parole come occupazione, disoccupazione o salari. Quanta differenza con l’enfasi retorica del Presidente Biden che di questi tre termini fa uso in maniera ricorrente per motivare, appunto, l’esigenza di una politica fiscale espansiva.
La seconda presunzione riguarda l’assenza di una terza alternativa. L’Europa, sì, scelga, pare dirsi, ma tra bilancio comune europeo o le attuali regole austere: tertium non datur. Una prospettiva allarmante non solo perché una centralizzazione fiscale oggi a Bruxelles come detto sopra non è detto che sia migliore dell’attuale stato delle cose, ma anche perché comunque vi sarebbe bisogno di tanto tempo per costruire una nuova architettura costituzionale. E di tempo, questa Europa, giustamente definita “mortale” dagli stessi leader franco-tedeschi, non ne ha: bisogna muoversi ora per evitare di dover constatare la fine del progetto europeo per il tramite del crescente sollevamento populista contro l’UE.
In realtà un’altra opzione c’è, eccome. Ed è quella che consente ai singoli Paesi di praticare politiche fiscali espansive in autonomia. Questa scelta, attualmente disponibile, sarebbe capace non solo di ravvivare le attuali magre statistiche europee del PIL ma di mettere anche in sicurezza il rapporto debito PIL dei paesi più a rischio. L’Italia è una controprova di ciò: nel secondo decennio del secolo, costretta dall’austerità a ridurre i suoi deficit, ha visto il debito-PIL crescere di 30 punti percentuali; mentre nei soli due anni di questo secolo in cui abbiamo recuperato dinamismo rispetto alla media europea, il 2022 e 2023, grazie a una crescita maggiore dell’1% generata da una politica fiscale generosa, il debito-PIL è calato. Oggi, 2024, che quelle politiche si interrompono per tornare austere, il debito risale nuovamente. Vero è che l’espansione via ecobonus non fu la politica ideale per sostenere credibilmente la crescita: bisogna spendere meglio.
Dove? E’ evidente: la relazione della Banca d’Italia mostra come la nostra P.A. è la più vecchia, la meno numerosa, la meno permeata di laureati e la più dominata da giuristi d’Europa, mentre nell’ultimo decennio, a causa dell’austerità, stipendi di docenti e insegnanti sono diminuiti rispettivamente dell’8,7% e del 14.8%! Partire da investimenti in capitale umano finanziati in deficit potrebbe avviare l’atteso sviluppo, mettendo in sicurezza il debito-PIL. E’ altrettanto ovvio come questa terza opzione, di maggiore autonomia, non rassicuri i nostri partner europei. Ma possiamo proporre ad essa delle restrizioni: come nel PNRR, ci si accordi con l’UE affinché tali scelte di maggiore spesa siano vincolate a controlli europei di qualità, con precisi milestone e target, soddisfatti i quali si potrà continuare a spendere per il bene del Paese e per la salvezza della “mortale” Europa.
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