Oggi, 23.6.2025, sul Fatto Quotidiano.
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Non c’è dubbio alcuno che le cose economicamente per l’Italia non volgano al meglio, con il nostro povero 0,4% di crescita stimata per il PIL nel 2025. E ciò malgrado le ampie somme messe a disposizione dal PNRR, che riusciamo a mettere a terra con insopportabile parsimonia (poco più della metà dei 122 miliardi erogati sinora sono stati spesi). I venti di guerra potrebbero rendere queste stime addirittura ottimistiche. Si pone dunque la questione di come uscire da questa ennesima fase di grave difficoltà, e la politica economica non poteva che essere al centro del dibattito al riguardo. Eppure la diversità di visioni proposte richiede un approfondimento e una scelta di campo eminentemente politica.
Nell’ultima settimana di maggio abbiamo assistito ad esempio a due proposte per uscire da questa situazione che hanno due caratteristiche in comune quando le paragoniamo tra loro: provengono da istituzioni di deciso e riconosciuto prestigio nazionale (Banca d’Italia e Confindustria) e mettono la politica fiscale nazionale, in particolare il ruolo della nostra spesa pubblica, al centro delle loro soluzioni.
Ma le similitudini terminano qui: non potremmo immaginare due visioni più opposte su come appunto usare le nostre leve di finanza pubblica per la ripresa italiana. Da un lato abbiamo infatti il Governatore della Banca d’Italia che afferma in maniera decisa come “il percorso di risanamento dei conti pubblici è solo all’inizio, … le nuove regole europee hanno restituito alla politica di bilancio un orizzonte di medio periodo … è fondamentale assicurare la continuità di questo cammino”, anche in caso di indebolimento (sic) del quadro macroeconomico. Viene altresì prediletta una strategia di “debito comune per finanziare un piano ambizioso di investimenti europei”.
Sono proposte che da qualche anno vengono regolarmente sostenute da coloro che vedono in iniziative provenienti da Bruxelles – a valle di un coordinamento tra stati membri e di una cessione di sostanziale potere decisionale alla Commissione europea sul dove spendere (tipicamente nei cosiddetti beni comuni come difesa, energia, digitale) – la cifra che li caratterizza.
Eppure le resistenze nazionali nell’UE a cedere sovranità e la richiesta di autonomia di spesa dei singoli stati (basterà guardare alla scelta tedesca di abbandonare in casa propria il rigore del deficit zero per favorire politiche espansive via investimenti) hanno mostrato l’impossibilità – innanzitutto politica – di procedere rapidamente e con efficacia alle sfide differenziate che deve fronteggiare ogni Paese per il tramite di un debito comune europeo, ancora lontano da venire.
L’immobilismo di politica economica che consegue da queste proposte non è tuttavia neutrale: per sua causa crescono, aggravando la stagnazione economica, sentimenti antieuropei in ogni parte del Continente, grazie a movimenti populisti che fanno sempre meglio nelle rispettive elezioni locali, minacciando la costruzione europea.
La proposta del Presidente di Confindustria è radicalmente diversa e ha il pregio di tenere conto dell’urgenza assoluta di agire in tempo prima che sia troppo tardi. Si chiede non di continuare nello stesso cammino di austerità seguito sinora ma di generare “un radicale mutamento di impostazione” visto che le scelte degli ultimi anni “stanno presentando un conto pesantissimo” e ci hanno indebolito. L’attuale Patto di Stabilità e Crescita, quello riformato da poco ma evidentemente in malo modo, non è che un patto per “il declino dell’Europa” se non consente che delle sole eccezioni di spesa per la difesa e non “un grande piano di sostegno agli investimenti dell’industria in ogni Paese europeo”. Abbiamo bisogno di ben altro che di un misero 0,4% di crescita: l’obiettivo deve essere di raggiungere almeno il 2% nel prossimo triennio, grazie a una “spesa pubblica produttiva, a partire dalle infrastrutture”.
Una politica fiscale espansiva dunque 1) in ogni singolo Paese e 2) immediata: “dobbiamo partire subito; in attesa di un possibile New Generation EU per l’industria, dobbiamo trovare le risorse per iniziare”. Bene, ma dove trovarle?
Soprattutto in deficit aggiungiamo noi, ma avviando in parallelo una credibile spending review, soprattutto grazie a una riorganizzazione delle nostre stazioni appaltanti – enti strategici per la qualità e efficacia della spesa pubblica – basata finalmente sulla selezione e promozione di personale con competenze e esperienza, e a cui riconoscere degni emolumenti economici in base ai risultati.
Poi, con una gigantesca iniezione di fiducia proveniente da queste dosi massicce di investimenti pubblici nazionali di qualità finanziati in deficit, anche gli investimenti privati ripartiranno. E sarà grazie al totale di questi investimenti, per il tramite della crescita che genereranno, che verrà abbattuto quel debito pubblico su PIL che le tante politiche austere non hanno fatto altro che far crescere, prima, e stabilizzare, poi, a livelli troppo alti per il nostro sistema Paese.
Il tempo stringe, dobbiamo scegliere quale delle due strade imboccare e, ne siamo certi, non è quella del debito europeo quella da seguire oggi.
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