Oggi, su Il Fatto Quotidiano
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Nell’accettare l’idea, contraria a tutti i precetti di economia politica, che si debba continuare a ridurre i deficit pubblici in tempi di recessione (come quelli che ci aspettano per il 2023) il Governo italiano rischia di incartare il Paese in un circolo vizioso. Questo non avrebbe ragione di avvenire se si conducesse piuttosto una politica fiscale espansiva a supporto di imprese e famiglie, che avrebbe il merito, se appropriatamente basata sulla leva degli investimenti pubblici, anche di ridurre il rapporto debito-PIL per il tramite della maggiore crescita economica.
Comunque sia, in realtà il Governo ha a disposizione un’altra carta, oltre a quella più naturale (ma vietata, scriteriatamente, dall’Europa) del maggiore deficit, per reperire le risorse necessarie per venire incontro alle pressanti richieste provenienti dal sistema economico: la spending review. Potrebbe ad alcuni apparire una contraddizione finanziare maggiori investimenti pubblici per il tramite di minore spesa, ma solo se si definisse erroneamente la spending review come un indiscriminato taglio di voci di bilancio come stipendi pubblici e acquisti di beni, servizi e lavori della Pubblica Amministrazione. In realtà una vera revisione della spesa mira ad un chirurgico taglio solo di quella parte che in realtà altro non è che spreco, quindi spesa di cattiva qualità. Identificarla e eliminarla, utilizzando i fondi così risparmiati per finanziare spese buone per lo sviluppo è un tutt’uno, e costituisce operazione virtuosa per l’economia. Si stima che siano più di 40 miliardi di euro, nel solo campo degli acquisti pubblici di lavori, servizi e forniture, gli sprechi da cancellare. Eppure l’annuncio del Ministro dell’Economia Giorgetti di imporre una riduzione in maniera “lineare” alle spese ministeriali fa parte di un approccio non solo quantitativamente molto modesto (1 mld. di euro circa) ma metodologicamente errato, in quanto volto a tagliare indiscriminatamente a tutti, sia a quelli che spendono bene (cioè a quelli che non sprecano) che a quelli che spendono male.
I dati che abbiamo a disposizione ci dicono inoltre che una quota maggioritaria degli sprechi negli appalti sono dovuti ad incompetenza, 80% circa, e non a corruzione. Questo giustificava la febbrile attesa di molti esperti riguardo al contenuto del nuovo Codice degli Appalti di recente approvazione in Consiglio dei Ministri: era lì infatti che alberga da anni la decisiva questione della qualificazione delle stazioni appaltanti e l’apparentemente connessa questione della competenza dei nostri acquirenti pubblici, così tanto messi all’angolo dai fallimenti del PNRR e della sua messa a terra. Eppure anche qui la delusione al riguardo non può che essere estrema. Vediamo perché.
Il Codice contiene due articoli, il 62 e 63, dedicati alla questione della qualificazione delle stazioni appaltanti. Eppure questi non hanno nulla a che vedere con l’aumento delle competenze delle nostre stazioni appaltanti, costituendo piuttosto un tentativo di centralizzare drasticamente le commesse nelle mani di alcune grandi centrali d’acquisto, “qualificate” di diritto e come tali autorizzate a effettuare gare di grandi dimensioni. Tutte le altre stazioni appaltanti, che devono dimostrare di possedere le capacità per qualificarsi, sono lasciate clamorosamente senza alcuno stanziamento per effettuare il necessario investimento in capitale umano volto ad attrarre ed assumere personale preparato – da strappare alle funzioni acquisto del settore privato – formandolo poi per il tramite di progetti di certificazione di qualità.
Il sospetto che si genera è che interessi piuttosto creare, per il tramite della qualificazione delle stazioni appaltanti, una barriera all’entrata, limitandone il numero per fare l’interesse solo delle grandi imprese nazionali e multinazionali a scapito dello sviluppo del Paese. Il risultato ultimo di questo schema di governance sarebbe infatti duplice. Da un lato, solo le gare di piccolo taglio verrebbero lasciate alle piccole stazioni appaltanti non qualificate, più di 30.000 punti ordinanti senza competenze, le cui gare sarebbero caratterizzate da opacità e inefficienza. Dall’altro, la scelta di centralizzare e aggregare ulteriormente le commesse pubbliche nelle mani di poche stazioni appaltanti dominerebbe un numero crescente di gare: una iattura per un Paese che fa delle piccole imprese il suo tessuto produttivo principale, e che le vedrebbe soccombere in una sfida impari con multinazionali e grandi imprese, impedendole di diventare più competitive per il tramite degli appalti pubblici e dunque più pronte alla prova del mercato globale. Già oggi solo il 14% del valore degli appalti in Italia va alle PMI, contro il 51% in Europa!
Il recente – altrettanto nuovo – Codice degli Appalti britannico prevede intelligentemente come “nell’esecuzione di un appalto, l’amministrazione aggiudicatrice deve tenere in considerazione il fatto che le piccole e medie imprese possono incontrare particolari ostacoli alla partecipazione, e considerare se tali ostacoli possono essere eliminati o ridotti”. Un afflato diverso, che non troviamo purtroppo nel nostro Codice permeato da un’indifferenza alla dimensione di politica industriale degli appalti, che l’attenzione tutta nostrana a centralizzare conferma.
Riassumendo, l’atteggiamento minimale che ci saremmo aspettati da questo Governo Meloni in cerca di risorse sarebbe stato dunque quello di interrogarsi su come abbattere gli sprechi, così da reimmettere i risparmi ottenuti nell’economia per il tramite di maggiori investimenti, avviando finalmente un circolo virtuoso. Ciò avrebbe garantito al contempo: 1) risparmi e risorse dall’abbattimento degli sprechi, 2) crescita del PIL tramite maggiori investimenti pubblici (anche quelli del PNRR oggi in ritardo); 3) crescita del PIL tramite la crescita della competitività delle nostre PMI.
Il Codice degli appalti, ben congegnato, sarebbe un’occasione unica per fare una politica di crescita che la stessa Europa avrebbe apprezzato, senza andare a quello scontro che i deficit pubblici, pur virtuosi in questo contesto così grigio, avrebbero generato. In tal senso da tempo raccomandiamo una governance “intermedia” di stazioni appaltanti, né poche né troppe, diffuse sul territorio a livello provinciale, 150 circa, su cui convogliare tantissime risorse per selezionare il personale più competente. E’ incredibile, anche politicamente parlando, farsi sfuggire una simile opportunità.
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