Oggi sul Sole 24 Ore con Lorenzo Pecchi ed Andrea Truppo.
*
Gli autori di questo articolo sei anni fa pubblicarono un libro [Difendere l’Europa, Chiarelettere] nel quale si preconizzava che “l’Europa sarà chiamata nei prossimi anni a fronteggiare un crescente numero di sfide nelle aree limitrofe, destinate per il momento a perdurare se non a radicalizzarsi.” Per far fronte alla crescente domanda di sicurezza mettevamo in guardia che l’Europa ed i suoi leader avrebbero commesso un grave errore se avessero sottovalutato la funzione e il ruolo chiave della diffusione di “una cultura della sicurezza” una volta che fossero stati chiamati a nuove responsabilità proprio nel campo della sicurezza internazionale.
Il 24 febbraio, con l’aggressione in Ucraina e la preoccupazione di una potenziale espansione russa per il ripristino degli Stati cuscinetto (di cui tanti coperti dall’art. 5 della NATO), tutta l’Europa ha percepito per la prima volta dopo quasi 80 anni un forte senso di incertezza ed insicurezza. Se per i singoli Paesi europei questa è una prova troppo ardua da affrontare singolarmente, per l’Unione Europea è un esame importante a cui non può sottrarsi. E’ pronta tuttavia l’UE ad affrontare questa sfida? Apparentemente ancora no. Al netto delle tante lodevoli iniziative ancora troppo giovani per produrre effetti tangibili – con riferimento agli European Defence Funds, alle Permanent Structured Cooperation, narrativamente amplificate dalla Bussola Strategica a cui seguiranno ulteriori documenti da parte della Commissione – il principale ostacolo per l’UE è ancora la sua eterogeneità ed una scarsa cultura della difesa.
Eppure ci sarebbe un fortissimo bisogno di una Difesa europea per rappresentare esigenze e valori specifici del continente. Anche nell’attuale crisi, per quanto la NATO abbia ritrovato un certo vigore, assistiamo al suo interno a comportamenti dissonanti. Vedi ad esempio le dichiarazioni di Biden che chiedendo un cambio di regime in Russia hanno messo in imbarazzo i principali paesi europei che sono alla ricerca di una soluzione diplomatica da realizzarsi quanto prima visto che siamo in un contesto in cui se il conflitto si dovesse ulteriormente allargare porterebbe la guerra nelle nostre case.
Tutti ciò dovrebbe condurci a chiederci che cosa vogliamo veramente noi europei e quali siano le nostre priorità. In altre parole, siamo chiamati a fare uno scatto in avanti nella costruzione della difesa europea che procede a ritmi troppo lenti rispetto alle urgenze che siamo chiamati ad affrontare. Una difesa comune europea che, va detto, è questione diversa dal raggiungimento dell’obiettivo del 2% di PIL per le spese militari che, come è evidente dall’attuale fase contingente, può ben essere raggiunto sotto l’egida Nato senza che vi sia una qualsiasi forma di accelerazione politica sulla prima come precondizione del secondo.
Nella prefazione al nostro volume Lucio Caracciolo affermava: “la difesa europea non è impossibile. Diventerà ineludibile nel momento in cui si comincerà finalmente a rilanciare un chiaro e definito progetto di Stato europeo, in confini certamente molto più ristretti di quelli dell’attuale Unione Europea. Una difesa senza Stato non ha senso. Ma nemmeno uno Stato senza difesa”. Ma rimane un dubbio che va sciolto: viene prima l’uovo o la gallina? Dobbiamo dedicarci prima a costruire uno stato europeo per rendere inevitabile un esercito comune o piuttosto precorrere i tempi di una federazione politica europea per il tramite di una difesa comune che finisca per accelerarla?
In una recente ed importante intervista televisiva Romano Prodi è sembrato prediligere la seconda via quando ha affermato come la crescita delle spese per la difesa debba avvenire solo dopo aver costruito una politica estera e della difesa europea comune, manifestando addirittura la preoccupazione che in assenza di questa, procedendo in ordine sparso, si possa mettere a repentaglio l’unione degli stati membri europei, portandoli a ripiegare su sé stessi.
La proposta dell’ex Presidente del Consiglio è quella di avviare una politica estera e della difesa rafforzata tra pochi stati membri, come fu fatto con l’euro.
Ovviamente questo corso, a nostro avviso raccomandabile, non solo ci permetterebbe di raggiungere una importante capacità militare per la pace e la sicurezza riducendo in futuro la probabilità di guerre vicine ai nostri confini, ma avrebbe anche significative implicazioni economiche. Mettere infatti a fattor comune le ingenti risorse che impieghiamo nella difesa come paesi europei, una volta opportunamente efficientate, avrebbe anche una ricaduta economica sul settore privato europeo in termini di ricerca e sviluppo per usi civili in una molteplicità di industrie (tra cui aeronautica, computer, microchip, internet, nucleare). Molte delle tecnologie che usiamo quotidianamente e che facilitano la nostra vita sono state originate grazie a spese militari.
A valle di un accordo tra un numero iniziale di stati membri volenterosi per garantire all’Europa un’autonomia strategica per la difesa, sarebbe necessario immaginare un “defence compact” che ricalchi il modello del PNRR. Nel nostro libro si suggeriva la creazione di un Fondo per l’Innovazione e la Difesa Comune finanziato con l’emissione di eurobond almeno nella fase iniziale, con la finalità di fornire ai paesi le risorse necessarie.
Eppure tutto ciò non sarà mai politicamente possibile se, contrariamente a quanto assistiamo in questi giorni nel nostro paese sulla spesa per la difesa, non si avvii insieme ai giovani – così sorpresi ed annichiliti dall’invasione russa – un ampio dibattito sulla necessità di una cultura della sicurezza e della difesa. L’Agorà europea mai come su questo tema si deve avviare, per sentirsi parte di un ‘Europa politica ancora tutta da costruire.
Scultura: Amoureux Solitaires, https://angelamariapiga.com/