Perché rimanere in una Unione così?

Oggi sul Sole 24 Ore

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            Un attonito Ferruccio De Bortoli, analista moderato e filoeuropeo, con il suo “27 luglio 2025, un giorno di cui vergognarsi…Perché rimanere in un’Unione che si fa trattare così?” (Corriere della Sera) manifesta lo sconcerto generato dal disastroso esito della negoziazione sui dazi e dalle ulteriori concessioni accordate agli Stati Uniti. La risposta proveniente dallo stesso circolo di opinionisti del quotidiano di Via Solferino è quanto mai rapida. Come a voler esorcizzare al più presto un simile scoramento, evitando così di rafforzare, invece, quanto augurato dai più tenaci anti europeisti.

         Prima di tutti Mario Monti (“L’onore perduto e il riscatto”), che chiede a tutti noi, e forse a De Bortoli in primis, di reagire. Citando Jean Monnet – “sconfitte sono solo quelle che si accettano” – e Franklin Delano Roosevelt – “l’unica cosa di cui dobbiamo avere paura è la paura stessa”-, l’ex premier chiede alla Presidente Von der Leyen di “avere un soprassalto di fierezza e di franchezza” e di fare tre cose: adottare una global minimum tax per combattere l’elusione fiscale delle multinazionali, adottare una digital tax e chiedere ad alcuni Paesi europei di formare, con altri paesi come Canada e Regno Unito, un nucleo politico ideale per governare insieme la globalizzazione. Insomma, l’Europa dovrebbe reagire alla propria crisi esistenziale con due imposte e una nuova alleanza per un’agenda globale volta a disintermediare sé stessa. Troppo poco? Sì.

          Sempre sul Corriere della Sera, Angelo Panebianco richiama invece a evitare litanie quali “bisognerebbe fare questo, … fare quello”, tipiche di coloro che parteggiano ancora per gli Stati Uniti d’Europa e, dopo un analogo suggerimento alla cooperazione dell’UE con altri Paesi, punta ad un nuovo europeismo non ambizioso, che non entri in collisione con le democrazie nazionali, per rispondere all’evidente stato di crisi continentale. Troppo poco? Sì.

         Troppo poco perché al giusto urlo di dolore di De Bortoli e dei cittadini europei, l’intellettuale non deve rispondere con litanie o cinismo politico, ma deve proporre un’alternativa che sia all’altezza della sfida.

         Monti fa bene a citare Monnet e Roosevelt perché hanno ambedue qualcosa da dire su come le federazioni, come quella che ambiamo ad essere, debbano affrontare i momenti di crisi. Monnet ebbe modo di ricordarci come quella che oggi chiamiamo UE nacque da una grande rivoluzione del nostro tempo, che mirava a “sostituire le rivalità nazionali con un’unione dei popoli nella libertà e nella diversità”. Libertà dunque di essere diversi tra uguali, ogni stato membro contribuendo all’arricchimento di tutti, con la propria cultura, la propria storia, le proprie tradizioni. Quanto abbiamo investito su queste due parole, libertà e diversità, nel costruire la nostra Unione? Quanto, negli ultimi due decenni, che hanno visto crescere i sovranismi antieuropei, abbiamo permesso ad ogni nazione di coltivare e dare peso alle proprie esigenze invece che insistere su aride standardizzazioni e regole comuni applicate a Paesi in evidente stato di diversità economiche, sociali e politiche? Poco. Franklin Delano Roosevelt ha poi combattuto quella paura che citò in maniera concreta, con politiche fiscali espansive in deficit, ridando fiducia a cittadini e imprese grazie alla visibilissima mano pubblica. Ricetta questa, invisa non solo all’austero Mario Monti ma anche all’intera Commissione europea di tecnici che ci guidano da Bruxelles.

         A Panebianco, che giustamente rifiuta la divisione europeisti e anti-europeisti come unica spiegazione dei guai dell’UE odierna, ma che si limita a evocare una terza categoria di europeisti c.d. “strumentali”, dediti alla soddisfazione di breve termine del proprio elettorato nazionale, andrebbe ricordato come in tutte le federazioni sia sempre esistita una categoria che, senza opporsi al progetto unitario, rivendica per ogni membro la propria specificità e il conseguente obbligo di vicinanza del governo nazionale alle esigenze locali. Negli Stati Uniti furono gli anti-federalisti che, lungi dall’opporsi alla bandiera a stelle e strisce, chiesero poteri decentralizzati per i singoli stati, per evitare una centralizzazione che avrebbe accentuato gli aspetti economici e allontanato quelli comunitari e morali, generando una leadership centrale aristocratica e troppo potente, lontana dalle esigenze delle persone.

         Ecco, è evidente che quello che sta fallendo non è il “progetto europeo” ma il “progetto europeo centralizzato”, che ogni singola nazione comincia, nelle urne elettorali, a respingere per richiedere un ritorno a politiche vicine alle proprie comunità.

Salvare l’Europa potrebbe quindi significare ridare oggi ad ogni singolo stato membro il potere assoluto sulla propria politica fiscale, lasciando che ogni governo si confronti con i propri cittadini nella maniera più consona alle proprie emergenze e necessità. Così fu per gli Stati Uniti nei primi 150 anni di vita, fino a quando tutti gli stati si sentirono così vicini culturalmente da essere finalmente pronti a lasciare la loro rappresentanza a un singolo leader, guarda caso Franklin Delano Roosevelt.

         E’ l’Europa che cresce dal basso, quella che può salvare l’Unione europea, ed è quella che dovremmo costruire, per rimanerci.

Opera: “Loss of energy”. Copyright opere Angela Maria Piga, all rights reserved.

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