Ieri su Micromega.
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La manovra del Governo per il 2025 è austera. Nell’essere tale contribuisce a ridurre la crescita già minimale del nostro prodotto interno lordo, riducendo l’opportunità di stimolare in più e in meglio l’occupazione dei nostri lavoratori, specie quelli più giovani. Non solo, porterà a aumentare il nostro debito sul PIL, contribuendo alla percezione sui mercati della nostra instabilità. In questo il Governo conferma per il terzo anno consecutivo di volere sottrarre risorse all’economia piuttosto che immetterle per provare a rilanciarla, in linea con tutti i Governi che l’hanno preceduto.
Ci sono diversi modi di comprovare queste affermazioni, che spesso vengono contestate affermando che l’austerity non sussiste più (difficile trovare oggidì chi affermi che non ci sia stata nel decennio precedente, anche tra coloro che all’epoca lo sostenevano).
Primo, il deficit pubblico è previsto scendere da 83 a 74 miliardi di euro. Ciò significa dovere trovare 9 miliardi di maggiori entrate e minori spese pubbliche, ovvero essere austeri. I quotidiani spesso si focalizzano su quella parte dei provvedimenti “espansivi”, come la conferma della riduzione del cuneo fiscale e dell’Irpef, che vale 12 miliardi ma ciò significa solo che andranno trovati 21 miliardi che più che compensino quei tagli di imposta.
Secondo, è lo stesso Giorgetti a definire restrittiva la manovra, a pagina 1 (sì, uno) del Documento di Bilancio pluriennale inviato alla Commissione europea, là dove afferma che tale manovra risulterà “restrittiva, a fronte di sfide tecnologiche e ambientali a cui le altre potenze economiche (Cina e Stati Uniti, nota dello scrivente) continuano a rispondere con ampio utilizzo di risorse pubbliche”, ovvero per il tramite – completiamo noi – di maggiori deficit per finanziare maggiori investimenti pubblici e generare maggiore crescita.
Terzo, con questa manovra austera, così come è avvenuto lungo l’arco di tutto il decennio precedente, mentre il deficit si abbassa (dal 3,8% del PIL del 2024 al 3,3% del 2025) grazie all’austerità, il debito su PIL – lo afferma il Governo stesso – crescerà: dal 135,8% al 136,9%. Qualcuno afferma che ciò è dovuto al peso dell’ecobonus, sfilandosi dal tema centrale, ovvero che maggiori deficit avrebbero comportato comunque minore debito su PIL per il tramite di un minore impatto negativo sul PIL. Non solo, ma così dicendo si fa finta di dimenticare che l’unico biennio in cui il debito su PIL è calato negli ultimi 20 anni è il biennio 2021-2023 grazie anche all’impatto espansivo di deficit-PIL attorno al 9% (e della tassa invisibile dell’inflazione). In questo senso all’ecobonus (con tutti i difetti che questo ha certamente avuto) va riconosciuta la capacità espansiva di avere generato sufficiente crescita da permettere almeno per una volta la maggiore sostenibilità delle finanze pubbliche.
Quarto, il tasso di crescita dell’economia italiana si dimostra di risentire clamorosamente di questa austerità. A fronte di un dubbioso +1% per quest’anno, il Governo spera in un +1,2% per l’anno prossimo, ma la verità è un’altra: il Fondo Monetario stima per lo stesso biennio una crescita italiana di solo +0,7% e +0,8%, malgrado siano questi due anni che includono il possibile grande impatto del PNRR (in realtà non sappiamo bene quanto il PNRR potrà incidere sulla nostra economia perché i dati mancano, come mancano anche le persone presso le nostre stazioni appaltanti, decimate dall’austerità del blocco del turnover dell’ultimo decennio). Detta in altro modo: senza il contributo degli investimenti pubblici del PNRR la nostra crescita – a causa dell’assurda austerità – assomiglierebbe tanto a quella tedesca, vicina allo zero.
C’è un ultimo punto da affrontare, forse il più delicato di questa austerità: essa si basa in gran parte su tagli di spesa pubblica. Ora, tagliare la spesa non è necessariamente un male, se questa spesa si traduce in sprechi perché tagliarli genera sviluppo e/o stabilità. Perché? Perché ci permette di trovare risorse che possono essere utilizzate in politiche virtuose, a seconda dei gusti del Governo: ricomprare debito pubblico, riducendolo, oppure ridurre altre tasse oppure aumentare la spesa produttiva (per esempio facendo manutenzione vitale di ponti, scuole, ospedali, infrastrutture critiche come quelle idriche, protezione di mari, fiumi e territori fragili). Ma per identificare gli sprechi, dovuti il più delle volte non tanto a corruzione ma a inefficienze e incompetenza, bisogna a sua volta investire in capitale umano e organizzazione: la spending review degli sprechi parte da una riorganizzazione profonda (ad esempio delle nostre stazioni appaltanti), rendendo la pubblica amministrazione un ecosistema capace innanzitutto di attirare i giovani con compensi adeguati e carriere all’altezza della sfida della qualità che a loro affidiamo.
Cosa avviene se, come è avvenuto in questi ultimi 20 anni e anche con la mancata azione del Governo Meloni al riguardo, non si fa alcuna spending review? Che non abbiamo la capacità di tagliare gli sprechi e allora quello che facciamo sono meri tagli di spesa, chiamati anche tagli lineari che, tagliando a casaccio, tagliano spesa essenziale per cittadini e imprese, che senza una pubblica amministrazione scintillante al loro fianco perdono la battaglia della competitività con le rivali estere.
Giorgetti questo farà, come tanti altri Ministri dell’Economia prima di lui, generando un effetto nefasto sul nostro PIL, il nostro dinamismo, la nostra occupazione di qualità, la nostra capacità di trattenere i nostri giovani in Italia. E’ ora di una rivoluzione fiscale che arresti immediatamente la corsa austera verso quell’inevitabile burrone a cui ci avviciniamo a occhi chiusi.
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